Riso, tempi moderni. Ritorno alla collezione
È il giorno del restart, per il Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia. Che diventa, oggi, museo d’arte Moderna e Contemporanea. Dopo le roventi polemiche degli ultimi mesi, dopo l'improvvisa sospensione delle attività, dopo le dimissioni del direttore in guerra con l’amministrazione regionale, finalmente si riparte. Tanto spazio alla collezione ma nessuna programmazione. Tutto molto confuso, fragile, sotto tono. E la sensazione che la politica, ancora e ancora, non riesca a limitare le sue cattive ingerenze in fatto di cultura. Un problema di tutto il Paese…
“Il Museo d’arte contemporanea di Palermo, Palazzo Riso, è stato chiuso dopo che un funzionario regionale ha provato a piazzarvi la moglie come direttore, poche settimane dopo che l’Unione Europea aveva destinato diversi milioni al finanziamento al Museo”.
Questo il lapidario cappello di un articolo scovato nei giorni scorsi sul sito del New York Times, all’interno di un focus dedicato a Palermo, nella sezione viaggi curata da Rocky Casale. Banalizzazione? Sintesi superficiale? In ogni caso, l’immagine che ne viene, per la Sicilia e per l’Italia, bella non è. Il trafiletto riprende la supposta vicenda di spoil system legata al Dirigente Generale dell’assessorato ai Beni Culturali Gesualdo Campo, che, secondo quanto raccontato dall’Onorevole Gianfranco Micciché, avrebbe provato a ritagliare un posto per la consorte nella cabina di regia del Palazzo. Tentativo subito inibito da parte dello stesso Micciché, allora Presidente dell’Ars. E poi c’è la questione budget, quei 12 milioni di euro stanziati dalla Comunità Europa a seguito dell’approvazione dei progetti Po-Fesr: soldi ancora congelati e – probabilmente – vero casus belli della vicenda.
Faccende confuse e complesse, che richiamano altri recenti episodi clamorosi: da quello del MAXXI, con tanto di ambiguo commissariamento e successive dimissioni del Presidente Pio Baldi, a quello del Madre, anche lì con questioni finanziarie irrisolte e sofferti giri di poltrone. Insomma, il punto è sempre quello: cambi di governance, beghe politiche e controllo delle risorse. Quanto basta per far saltare qualunque macchina o contenitore, efficiente o meno che sia.
Ma, per una bizzarra coincidenza, l’articoletto del Times arriva a un soffio dall’attesa riapertura di Riso, annunciata circa un mese fa in conferenza stampa: subito dopo, il Direttore, Sergio Alessandro, rassegnò le sue dimissioni.
Ecco dunque, al margine di quattro roventi mesi di polemiche, la bella notizia. Il Museo c’è, è vivo e riprende la sua corsa. Ma non è tutto così chiaro. Intanto, il Museo riparte, ma senza un direttore. Continua infatti il commissariamento da parte di Campo, che, in assenza di nuove nomine, tiene salde le redini della situazione. Peccato. Meglio sarebbe stato attendere e presentarsi con una identità e un taglio progettuale che portassero la firma di un vero capitano. Magari scelto tramite regolare concorso.
E già basta dare un occhio a catalogo e inviti, per capire che di nuova identità non si può propriamente parlare: la precedente grafica, in assenza di un vero restyling, viene spazzata via e sostituita da un layout privo di carattere. Scomparso pure il logo, che fa posto al marchio della Regione Sicilia. Ma non è tutto: anche il nome cambia. Da oggi, Riso diventa Palazzo Belmonte Riso – Museo d’arte Moderna e Contemporanea della Regione Sicilia. Con quell’aggettivo “moderna” sbucato fuori sommessamente per volontà dello stesso Campo, notoriamente poco appassionato di contemporaneità e molto sensibile alle suggestioni ottocentesche.
Ma veniamo al cuore della faccenda: le mostre. Come annunciato, il nuovo Riso si presenta con la collezione, quel nucleo di quaranta opere acquisito anni fa in blocco e mai più rimpolpato, oggi piazzato in permanenza su uno dei due piani. Una politica vera sulle acquisizioni? Macché. Non un soldo per gli acquisti in tanti anni e, visto il periodo di vacche magre, nessuna inversione di rotta a breve. Allestimento soffocato, nell’esiguo spazio a disposizione, per una mostra che, viste dimensioni e tipologia della raccolta, esclude la possibilità di una selezione critica o tematica. A curarla l’architetto dell’Assessorato, Francesco Andolina. Tra i nomi, oltre a maestri come Isgrò, Accardi e Boltanski, molti siciliani giovani e mid-career: Laboratorio Saccardi, Andrea Di Marco, Alessandro Bazan, Croce Taravella, Barbara Gurrieri, Loredana Longo, Domenico Mangano, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza.
Mancano all’appello l’opera di Richard Long, realizzata per Gibellina ma di cui si era annunciato il rientro a Palermo, e la mega installazione di Jannis Kounellis, quei poderosi armadi lignei sospesi al soffitto che, misteriosamente, il pubblico non troverà al loro posto. Sarà questo, come ribadito in conferenza stampa, il vero cuore del Museo: non più centro votato alla ricerca e alla produzione, ma principalmente luogo di conservazione. Nella nuova ala, che l’imminente cantiere regalerà al Palazzo, sarà accolto anche un corpus di opere del Novecento attualmente custodite oggi negli spazi di Palazzo Aiutamicristo. Guttuso, Consagra, De Pisis, Sironi: la virata al passato non è solo di nome, ma anche di fatto.
Nelle tre stanze del primo piano, destinate da ora in poi alle temporanee, è allestita una piccola, delicata mostra sul tema delle migrazioni, ispirata alla realtà di Lambedusa: Più a Sud, curata da Paola Nicita, mette insieme tre interventi di Manuele Lo Cascio, Francesco Arena e Sislej Xhafa. Il progetto, dal taglio concettuale e dal timbro poetico, arriva da un più ampio programma dedicato al tema della fuga, elaborato dalla precedente direzione nell’ambito dei famosi Po-fesr.
E il futuro? Manco a parlarne. Nessuna programmazione espositiva è stata ancora annunciata, nessun palinsesto di attività. Ma intanto, che fine hanno fatto l’archivio SACS o la sezione di didattica? A quando i nuovi numeri di Annex? Dove sono i programmi con gli scambi di residenze? Dove gli special project, gli eventi, le installazioni en plein air, le produzioni site specific, i laboratori con gli artisti? Che ne è stato di bookshop e caffetteria? Solo un ricordo, ad oggi.
Ma siamo fiduciosi: che si replichi la vecchia formula o se ne tiri fuori un’altra, ciò che conta è che un po’ di succo venga fuori. Per dare senso e struttura a quello che è – o dovrebbe essere – un centro di produzione per l’arte contemporanea di livello internazionale, e non una polverosa teca per la conservazione di un gruppo di opere acquisite una tantum e – fatta qualche eccezione – nemmeno così straordinarie. Nel frattempo si apprende che del neonato comitato scientifico non farebbe più parte Anna Mattirolo (la quale precisa, in realtà, di non avere mai accettato l’invito); al suo posto subentrerebbe il marchese Berlingeri. E il budget? Quello del 2012, preventivamente fissato a 490mila euro, è sceso a 343mila, dopo gli ultimi tagli che hanno riguardato l’intero bilancio regionale.
In conclusione, se Sir. Rocky Casale, semplificando di molto, adduceva la chiusura del Museo al tentativo di piazzarvi ai vertici la moglie del Dirigente Generale – esperta d’arte moderna – noi qui ci limitiamo a constatare che il museo riapre, non con la moglie, ma col marito: archiviato Alessandro, Campo fa adesso le sue veci. Fino a quando? Più che in un cantiere proiettato in avanti, pare di trovarsi dentro a uno strano limbo. Le mostre appena inaugurate dureranno fino al 30 settembre. E poi? Poi si torna alle urne. Con la prossima Presidenza della Regione gli scenari cambieranno ancora. Altro che Musei dei cittadini. Bacini di voti, merce di scambio, roccaforti di potere, casseforti per silenziose razzie, ammennicoli consacrati all’incuria. Sono davvero ridotti a questo, negli anni dieci del XXI secolo, i Musei d’Italia?
Helga Marsala
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