Tutte le donne di Thomas Schütte
Appuntamento lunedì sera. Per la mostra dell’anno al Castello di Rivoli. Eh sì, perché con l’aria che tira, di progetti colossali come questo se ne possono produrre al massimo uno a stagione. Della mostra abbiamo parlato con il curatore Andrea Bellini. Della situazione del museo con la stessa persona, in veste però di co-direttore.
Quando nasce la mostra di Thomas Schütte?
Lavoro a questo progetto ormai da tre anni. Le mostre museali di questa importanza – si tratta della prima personale dell’artista tedesco in un museo italiano – devono essere programmate con diversi anni di anticipo. Thomas Schütte ha infatti realizzato alcune opere appositamente per il Castello di Rivoli.
I fondi, nel frattempo, sono diminuiti…
La mostra è stata pensata quando il museo aveva un altro budget, anzi diciamo che aveva ancora un budget. I tagli, nel 2012, sono drammatici: non ci sono fondi per le mostre temporanee. La posizione del nostro CdA al riguardo è chiara: vengono autorizzati solo ed esclusivamente i progetti che godono di una copertura economica esterna. La verità è che fino a qualche mese fa la mostra ha rischiato di essere annullata. Mi è stato chiesto di trovare sponsor per coprire il 100% dei costi. Un’impresa quasi impossibile, vista la drammatica crisi che stiamo attraversando.
E quindi…
E quindi ho cercato subito un partner istituzionale con il quale co-produrre il progetto, e poi ovviamente degli sponsor privati.
Chi sono i partner istituzionali?
Il Nouveau Musée National de Monaco. Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente la struttura dirigente del NMNM, dal presidente del museo, la principessa Carolina di Hannover, al direttore Marie-Claude Béaud, compreso Cristiano Raimondi, responsabile dello sviluppo, il quale ha avuto un ruolo determinante. Senza l’appoggio di questa istituzione, la realizzazione del nostro progetto sarebbe stata impossibile.
In che modo collaborate?
Co-produciamo la mostra Frauen al Castello di Rivoli, e poi un’altra personale di Schütte, One Man Houses a Monaco, che inaugurerà il 6 luglio. Oltre alla mostra, almeno questa è l’idea, dovremmo riuscire a realizzare una One Man House nel Principato di Monaco in scala 1:1.
Ma questa collaborazione non copre tutti i costi…
No, diciamo un 50% di circa 200.000 euro, il costo complessivo della mostra (compresi il catalogo, la guardiania e la cena). Il resto del budget è assicurato da Absolute Vodka, che aveva già finanziato le nostre attività l’anno scorso, e dalla Fondazione CRT Arte. Queste due realtà coprono complessivamente il 40 % dei costi. Vorrei ringraziare in particolar modo Michel Mauran, il nuovo amministratore delegato di Pernod Ricard Italia, e Fulvio Gianaria, presidente della CRT Arte. Un aiuto è arrivato anche dalla Galleria Tucci Russo, che segue il lavoro dell’artista tedesco dal lontano 1986, quando era ancora praticamente sconosciuto. A Lisa e Tucci Russo va il merito di aver individuato e sostenuto questo artista ormai leggendario in tempi non sospetti.
Veramente vi ha aiutato anche la sua galleria?
Certo! Come accade da tempo all’estero, dove le gallerie aiutano le istituzioni pubbliche a realizzare le mostre. D’altronde, nella situazione attuale l’alternativa per i musei sarebbe quella di cessare o quasi l’attività. Deve comunque essere il museo a chiedere aiuto: la sua autonomia nella definizione del programma deve rimanere assoluta.
Perché una multinazionale come Pernod Ricard investe sul Castello di Rivoli?
Pernod Ricard, con Absolut Vodka, si occupa storicamente di arte contemporanea. L’attuale struttura dirigente crede nel nostro museo, e crede nella qualità dei progetti che gli proponiamo.
È una collaborazione di lungo corso…
Per me è essenziale. Non credo nelle sponsorizzazioni spot. Meglio per tutti lavorare costruendo collaborazioni durature. È anche una questione di strategia e di rispetto reciproco.
Quali benefit puoi offrire agli sponsor?
Innanzitutto il prestigio di questa istituzione, e poi il luogo stesso, questa magnifica architettura del Settecento. Pernod Ricard ha organizzato già diversi incontri e workshop di lavoro qui a Rivoli.
Hai chiesto prima aiuto alle realtà industriali torinesi?
Ho cercato fondi in tutte le direzioni. Ho una esperienza, come fundraiser, piuttosto lunga a Torino. Negli ultimi anni però, a causa della crisi, ho visto cambiare la situazione in modo radicale. In Italia non abbiamo ancora una legislazione che favorisce l’investimento in cultura da parte dei privati, per cui la sponsorizzazione è spesso vista come un gesto a perdere. Trovare il budget per produrre questa mostra è stato davvero molto complesso.
Secondo te hanno pesato un po’ anche le discussioni sorte attorno al Castello di Rivoli?
Le aziende guardano ai risultati, non alle chiacchiere. Il Castello di Rivoli, nonostante i tagli, ha chiuso il 2011 con un attivo di 400.000 euro e un aumento di visitatori del 6%. Siamo ancora in grado di presentare mostre, come questa di Schütte, di grande prestigio internazionale. Considerando che in Italia i musei sono a rischio chiusura o vengono addirittura commissariati, penso che questo sia obbiettivamente un buon risultato.
Come avete fatto?
Abbiamo ottimizzato le risorse, tagliando le spese ovunque, e abbiamo costruito un’attività espositiva – anche intensa – basata sul principio della collaborazione con altre istituzioni internazionali. Questo ci ha consentito di abbattere i costi dei trasporti e della produzione dei cataloghi. Per la realizzazione delle tre personali che abbiamo dedicato a tre grandi artisti italiani – Luigi Ontani, Luigi Ghirri e Piero Gilardi -, fondamentale è stato il lavoro svolto con il Van Abbemuseum di Eindhoven, con la Kunstalle di Berna, con il Consortium di Digione e con il Nottingham Contemporary in Inghilterra.
Inoltre, e questo mi sembra un dato significativo, abbiamo cominciato a esportare all’estero mostre personali dei nostri artisti. Quindi produciamo ed esportiamo progetti, contribuendo alla conoscenza di un’altra storia dell’arte italiana, forse meno nota ma non meno interessante di quella – per così dire – ufficiale. Non prendiamo in affitto progetti espositivi nati altrove.
E adesso Schütte. Cosa vedremo?
Finalmente parliamo della mostra! Il progetto che presentiamo a Rivoli si intitola Frauen. È la prima volta che vengono esposte tutte insieme queste 18 sculture in alluminio, acciaio e bronzo, realizzate da Schütte negli ultimi anni. La Manica Lunga, così difficile da allestire, dimostra in questa occasione tutto il suo valore aggiunto. Siamo uno dei pochi musei in Europa che può permettersi di allineare in un unico spazio una serie di sculture di grandi dimensioni, che vanno a occupare una lunghezza di 160 metri. Invito tutti a vedere questa mostra. Credo si tratti di uno dei progetti più ambiziosi e più riusciti mai realizzati nella Manica Lunga. Inoltre, fuori dal museo, abbiamo già collocato i due United Enemies, prodotti dall’artista appositamente per Rivoli. Sono due sculture in bronzo alte quattro metri.
Cosa raffigurano, rispetto alle Frauen?
Sono personaggi maschili con volti truci e violenti, realizzati a partire da alcuni modelli in cera che Schütte fece a Roma nei primi Anni Novanta. Sono ispirati alla statuaria romana antica, ai volti degli imperatori, e anche al gruppo di politici italiani che allora stava cadendo a seguito della vicenda “Mani pulite”.
Per cui questi “nemici uniti” sono il CAF e compagni?
Sono personaggi della storia antica che ricordano quelli dei nostri tempi. L’interesse del lavoro di Schütte risiede a mio avviso in questa sua capacità di guardare al passato, anche della storia dell’arte, riuscendo poi a considerare problemi molto attuali. Con le Frauen Schütte dimostra di saper riconsiderare la storia della scultura occidentale, in particolare quella dell’inizio del secolo scorso, penso a Maillol, a Bourdelle, ma anche a Matisse e Picasso, per poi inserirla in un contesto completamente nuovo, che è quello del suo linguaggio personalissimo, in grado di toccare corde molto profonde dell’animo umano.
Parliamo di modelli di musei: il tuo mi sembra più aperto e manageriale.
Manageriale mi sembra una parola grossa. Diciamo che ho fatto di tutto per trovare i fondi per realizzare i progetti. Certamente abbiamo anche operato razionalizzazioni e risparmi, e questo ci consente di non avere buchi di bilancio. Per quanto riguarda l’idea di un museo più aperto, sì, mi riconosco nell’analisi. Mi piace l’idea di un museo in grado di dialogare con tutti, il più inclusivo possibile: un museo come forum e non come un tempio.
Più aperto anche dal punto di vista della programmazione?
Certo. Negli ultimi 25 anni il Castello di Rivoli ha svolto un lavoro cruciale sull’arte italiana. Ora però è giunto il momento di valorizzare alcune singole personalità che non sono state prese in considerazione in passato, magari perché non appartenevano a questo o a quel gruppo. Io credo che un museo non possa limitarsi a raccontare una sola storia dell’arte. La storia dell’arte è un fatto corale, bisogna riuscire ad andare in profondità e mostrare la complessità della ricerca artistica di una determinata epoca, senza concentrarsi in modo semplicistico solo su un gruppo, per quanto significativo questo possa essere. Oggi uno dei problemi dei musei d’arte contemporanea internazionali è che tendono spesso ad appiattirsi sulla stessa programmazione. Questo lo trovo poco rispettoso nei confronti del pubblico. Ai visitatori non bisogna chiedere di venire al museo per riconoscere dei nomi, ma per compiere un’esperienza intellettuale, anche di scoperta. Per questa ragione credo sia necessario aprire il museo al racconto di altre storie.
E in questo senso avete anche trasformato il modo di concepire le mostre…
Abbiamo fatto uno sforzo in questa direzione. Io penso che le mostre fatte soltanto di opere d’arte, parlo soprattutto delle collettive, non siano più molto interessanti. Una mostra deve comprendere anche una parte di documentazione in grado di collocare l’opera all’interno di un contesto storico e culturale. Penso non solo ai documenti relativi agli artisti, ma anche ai filmati e ai documentari. Un progetto espositivo di ampio respiro deve inoltre saper mettere in relazione opere di artisti celebri con oggetti e manufatti diversi, magari anche anonimi. Insomma, mi interessa la possibilità di allargare il concetto stesso di mostra… Questa deve rappresentare un meccanismo intellettuale più ricco della somma delle singole opere esposte.
Quanti soldi avete nel 2012?
Parli del budget di quest’anno? Semplicemente non lo sappiamo. Sappiamo, come ti dicevo, che non ci sono soldi per la programmazione.
E avete esportato mostre all’estero…
Credo sia fondamentale per un museo italiano promuovere l’arte italiana. Se dobbiamo aspettare che sia il MoMA a farci riscoprire l’opera di Luigi Ghirri o quella di Piero Gilardi, credo che potremo attendere invano altri decenni.
Con la mostra appena conclusa hai puntato l’attenzione su Piero Gilardi…
Gilardi ha avuto un ruolo di grande rilievo nel contesto dell’arte italiana e internazionale della seconda metà degli Anni Sessanta. Il suo contributo a un certo tipo di riflessione teorica, non solo degli artisti dell’Arte Povera, ma anche di curatori come Harald Szeemann, deve ancora essere studiato e compreso pienamente. Non solo: la sua attività successiva, al di fuori del sistema dell’arte, ha anticipato di decenni tutta la problematica dell’estetica relazionale e di certa arte impegnata. Il suo lavoro oggi è tornato di grande attualità. Su di lui sta convergendo l’interesse di diversi giovani curatori e storici dell’arte, soprattutto stranieri. Penso dobbiamo essere orgogliosi del fatto che questa mostra sia nata a Rivoli e del fatto che sarà ospitata da altre due istituzioni europee.
Malgrado le polemiche, o a causa di esse, ancora non è molto chiaro quanto sia il compenso tuo e di Beatrice Merz, in qualità di co-direttori del Castello di Rivoli. Chiariamo una volta per tutte?
Guarda è stato chiarito “una volta per tutte” in diverse occasioni, anche recentemente sul Sole 24 ore. Ora lo chiarisco con te, e nella prossima intervista mi si chiederà di chiarirlo di nuovo. Comunque posso dimostrare, busta paga alla mano, che abbiamo un salario di 3.800 euro netti al mese.
Come vi dividete i ruoli?
Beatrice Merz ha un ruolo delicato, lei si occupa dell’amministrazione oltre che della collezione. Io mi occupo della programmazione artistica.
Quanto peserebbe sul museo la nascita della superfondazione dei musei che si sta prospettando, con relativo accorpamento di funzioni?
Ho letto che ci sono problemi riguardo alla fantomatica superfondazione, ma non voglio esprimermi perché non ho informazioni né dati alla mano.
Si prevederebbero altri tagli?
Non si sa, è ancora tutto molto vago.
Se ti chiamassero da un museo come la Tate di Liverpool, “fuggiresti” all’estero come Francesco Manacorda?
Non mi pare che Francesco sia fuggito all’estero. È un professionista e ha accettato un’interessante offerta di lavoro in Inghilterra. A dire il vero, l’agenzia inglese che cercava una persona per quella posizione ha contattato anche me. Ma io sei mesi fa non ero pronto per partire. Stavo definendo in quel momento gli accordi con altri musei europei per Luigi Ontani e Piero Gilardi, e poi stavo lavorando alla mostra di Thomas Schütte. Sarei stato un incosciente se fossi andato via senza portare a termine questi progetti. In alcuni casi non è solo un diritto rimanere, è piuttosto un dovere.
Qual è, secondo te, lo stato di salute della critica d’arte oggi?
La critica è morta, più o meno. Meglio così. È finito il periodo in cui, come accadeva negli Anni Sessanta, qualche critico veramente influente poteva stroncare con un articolo la carriera di un artista. Forse non era possibile già allora, però la critica aveva obiettivamente più peso. Oggi il sistema dell’arte sta diventando sempre più articolato e complesso. Il ruolo del singolo, fortunatamente, viene ridimensionato. Ora il valore di un artista lo stabilisce il sistema dell’arte nel suo complesso, quindi certo anche i critici, unitamente ai curatori, ai collezionisti, ai galleristi, ai direttori di museo ecc. Per lo più la critica produce una letteratura compiaciuta, servile e inutile.
È la fine del critico militante?
Un tempo si poteva trovare un critico militante che si batteva per l’affermazione dell’Informale in Italia. Sembra una barzelletta, a dirlo adesso. Oggi il critico è ancora militante, ma milita per se stesso.
E i libri di critica?
Quelli che meritano di essere letti sono pochissimi.
L’ultimo libro valido che hai letto?
Interviews, conversations, and chit-chat di Mike Kelley, edito da JRP Ringier e Le Presses du Réel.
Sei stato direttore di Artissima: come vedi il fatto che il pubblico frequenta sempre meno le gallerie? Un gallerista di riferimento come Franco Soffiantino chiude per produrre soltanto progetti di suoi artisti nei musei. Si aprono nuovi scenari?
Secondo me continueranno a esistere sia le gallerie che le fiere. Gli scenari rimarranno fondamentalmente gli stessi. La crisi sta avendo e avrà effetti devastanti solo sugli anelli meno solidi della catena. Io stimo molto Franco Soffiantino e spero veramente che riuscirà a realizzare i propri sogni.
Chi sono i tuoi modelli di riferimento a livello museale?
Il Reina Sofia di Madrid, diretto da Manuel Borja-Villel. Trovo interessanti i loro progetti espositivi, dal taglio storiografico e scientifico ma capaci di attrarre anche un pubblico ampio. Manuel sta veramente ripensando il senso stesso dell’attività espositiva. E poi guardo con molto interesse anche la programmazione del MACBA di Barcellona e del Van Abbemuseum di Eindhoven.
E in America?
Gli Stati Uniti sono ancora il centro del mondo dell’arte, su questo non c’è dubbio, ma non mi sembra ci siano al momento istituzioni in grado di dare indicazioni di rilievo sulla questione del rinnovamento del museo d’arte contemporanea. Credo che il contributo maggiore a questo riguardo venga da alcune istituzioni europee.
Credi che Rivoli subisca in qualche modo la “concorrenza” di nuovi musei sorti in Italia? Un tempo era il solo, poi sono arrivati il Mart, il Mambo, il Macro, il MAXXI, il Madre…
Con l’attuale crisi, i musei italiani che sono ancora aperti fanno molta fatica a produrre attività. È diventato veramente molto difficile oggi, per noi come per gli altri, programmare anche una sola mostra di rilievo. Purtroppo tutta questa concorrenza, che sarebbe una cosa sana, al momento è solo virtuale.
È stato un errore il MAXXI? Spendere così tanto per il progetto di Zaha Hadid e così poco per le mostre? Rivoli è nato da un recupero, mentre Mart e MAXXI sono opere di archistar.
Non direi che si è trattato di un errore aprire un museo d’arte contemporanea a Roma, e non darei la colpa al MAXXI e ai suoi dirigenti se il ministero ha deciso questi tagli drammatici, strozzandone le attività. Comunque qualche considerazione al riguardo la farei. Mentre alcune città hanno bisogno di costruire monumenti – penso ad esempio a Bilbao, dove il Guggenheim è diventato una meta del turismo internazionale da un milione di visitatori all’anno -, altre città hanno bisogno di cose diverse. Una sparata architettonica, più o meno felice, può fare molto bene a una città in cerca di turismo e visibilità. Roma di monumenti, di visibilità e soprattutto di turisti ne ha forse anche troppi. Io penso che la Roma contemporanea abbia più bisogno di produrre mostre ambiziose, collaborazioni di prestigio, progetti culturali validi. Insomma, chiederei per il futuro più contenuti che contenitori.
Nicola Davide Angerame
Rivoli // fino al 23 settembre 2012
Thomas Schütte – Frauen
a cura di Andrea Bellini e Dieter Schwarz
Catalogo Richter Verlag
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