Un’ora a Macao. E pare solo un giochino
Mentre continua la vicenda Macao, dalla Torre Galfa a Palazzo Citterio sino a destinazioni ulteriori, pubblichiamo il reportage, le riflessioni, l’impressione di chi in quel grattacielo ci è andato per capire cosa stava succedendo. E più di qualcosa non convince.

Macao è una mina antiuomo. Una bomba al fosforo bianco. Macao è una trappola. A tenderla è, involontariamente, una retorica dei luoghi comuni che è difficile aggirare. Perché Macao è un’azione tanto radicale da chiedere una presa di posizione, da avvicinare allo zero la schiera dei non sa / non risponde. Anche se ogni plauso suona come l’incoraggiamento a un Sessantotto in ritardo; anche se ogni censura, di contro, è suscettibile di accuse di cecità. Entro a Macao per raccogliere l’intervista ad E., che in un’idea di condivisione collettiva del progetto non vuole rivelare il suo cognome e dopo aver balbettato un paio di minuti buoni alla domanda “ma tu che lavoro fai?”, mi chiede di non pubblicare la risposta. Sempre in nome di una esibita volontà di anonimato, a garanzia che Macao non è vetrina per le velleità del singolo ma processo condiviso; un segreto da mantenere, “altrimenti mi vendico con Artribune”. E che fai? Ci occupi?
Entro a Macao per un’intervista. Ci passo un’oretta. Esco che non ho capito granché di cosa Macao vuole essere. Forse avrei dovuto partecipare alle riunioni, agli incontri, ai dibattiti che hanno preceduto l’occupazione; perché presa così, Macao non convince. E non per il facile snobismo che mi fa drizzare i peli sulle braccia, io che non sono mai stato in campeggio, all’idea che si possa dormire buttati per terra senza nemmeno un cesso degno di questo nome; non per il gusto saccente di trovare il pelo nell’uovo sempre e comunque. Ma perché dietro a fenomeni così forti mi aspetto di trovare una limpidezza di idee, una freschezza di pensiero che a Macao, certamente per demeriti miei, non ho visto.
Mi incuriosisce scoprire che Milano ha così tanta sete di spazi per l’arte e la cultura da aver bisogno dell’appropriazione indebita di un edificio privato. Parliamo di una città che conta una quarantina di musei e almeno altrettanti teatri, circa sessanta gallerie d’arte private; un’accademia che, magari oggi un po’ appannata, resta punto di riferimento a livello nazionale. Trattasi di spazi istituzionali o istituzionalizzati, ovvio. Spazi anche privati. Spazi che non è facile permeare, nei quali non è immediato entrare. Spazi che rispondono a logiche che non è sempre agevole sposare o condividere. Spazi che ci sono, però. Spazi negati da Macao, che si propone come un’alternativa onestamente poco chiara: come ci si muove al suo interno? Cosa si può fare? E chi lo decide? Quale credito ha un’azione artistica che nasce in Macao? Sprezzante la pagina locale di Libero, che nel definire gli occupanti pone sdegnose virgolette attorno alla parola artista: non ci spingiamo fino alla maldicenza (nel caso di Libero certamente ideologica) ma ci poniamo il dubbio che gli artisti di Macao non trovino spazi perché non sanno trovarne. Perché non sono abbastanza bravi, o semplicemente scaltri e paraculi, per ottenere riconoscimento per il proprio lavoro; amara verità, triste realtà, darwinismo dell’arte insomma. Gli individui che sanno adattarsi al mercato sopravvivono: per gli altri c’è Macao, piazza libera dove esercitare il proprio livore di rifiutati.
La giunta Pisapia figlia delle civiche e della rivoluzione arancione, quella dell’intellettuale Majorino e del baby Maran – fresco di premio “qualità” assegnato dal Forum della Meritocrazia – è la stessa che, per stare in piedi, ha dovuto appioppare la delega più pesante e onerosa a Bruno Tabacci. Ex presidente della Lombardia imposto negli Anni Ottanta da De Mita, ex parlamentare nella maggioranza di centrodestra, riadattato insieme a Follini a uomo di centrosinistra: oggi assessore al bilancio e unico nome spendibile, in quota PD, per il dopo Formigoni. La giunta Pisapia, mitragliata dal fuoco amico di Macao, palesa difficoltà sui temi forti per la Milano di domani: che non sono certo l’Area C, restyling dell’Ecopass, né tanto meno i pretesi spazi per la cultura. Ma Expo 2015: fattore su cui non solo non sono state diradate le nubi addensate dalla fangosa gestione Moratti, ma che ancora sconta le gomitate fra lo stesso sindaco e Stefano Boeri. Macao, con la sua azione di forza e il rifiuto di accettare la soluzione di un trasferimento all’Ansaldo, ha svelato come il re di Milano sia nudo. E ha creato un precedente che, di questi tempi, suona come allarmante: in città, chi vuole qualcosa, se lo prenda. Perché la base della contrattazione è questa, parte dall’effrazione: prima occupo, prima spacco. Poi, semmai, parliamo.
In campagna elettorale Pisapia aveva promesso, tra le altre, la risoluzione della questione moschea. Considerata la gestione imbarazzata dell’affare Macao cosa possiamo aspettarci se, domani mattina, una comunità islamica esacerbata dalle tensioni di viale Jenner decidesse di occupare uno qualsiasi degli spazi derelitti e abbandonati della città?
Nella mia ora a Macao non ho visto molta arte, ma è certo colpa mia: avrei dovuto fermarmi di più. Nella mia ora a Macao ho visto molto caos, ma è sicuramente un mio difetto. La mia ora a Macao è finita con E., il mio interlocutore, che stoppa la registrazione della nostra chiacchierata interrotto dal cellulare: “Scusa, devo andare: è per un’intervista”. E noi che stavamo facendo, scusa? Forse giocando. Sarà mica questo il vero spirito di Macao?
Francesco Sala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati