Com’è nato il progetto OA – cinque atti teatrali sull’opera d’arte?
OA è nato dalla considerazione che, negli ultimi anni, un’arte complessa quale è il teatro sta cedendo il passo a forme narrative che abbassano il livello poetico e filosofico, componenti che solitamente caratterizzano, o almeno dovrebbero caratterizzare, il teatro d’arte. Assistiamo, oggi, a una sorta di massificazione: i teatri sono occupati da personaggi riconosciuti dal punto di vista televisivo, i testi sono sempre più vicini al tipo di narrazione che negli ultimi trent’anni ha caratterizzato la televisione, si cercano storie che coinvolgano sentimentalmente e con leggerezza.
Sono spesso spettacoli senza scenografie…
Infatti, il teatro rischia di perdere le proprie costitutive peculiarità visive: ad esempio, assistiamo a uno spostamento verso il teatro di narrazione che, seppur spesso di altissima qualità, tiene poco conto di ciò che sono apparato scenico, macchineria, visionarietà, storicamente caratterizzanti il teatro. È il crollo del sistema estetico.
Qual è stata la vostra “reazione”?
Cercare un’alternativa è da sempre una caratteristica del lavoro di Krypton. Da anni lavoro sull’idea che il teatro possa sviluppare le grandi intuizioni delle Avanguardie storiche: penso al teatro del Bauhaus di Oskar Schlemmer, secondo il quale la presenza dell’uomo opera nella cabina di regia a governare “la festa degli occhi”. Il palcoscenico è un potenziale espressivo di altissimo livello, che non deve, non può essere sottratto alle sue possibilità.
Risalendo il Novecento, quali sono le altre esperienze fondamentali?
Merce Cunningham, ad esempio, che con Rauschenberg e John Cage crea l’happening, in cui le discipline si intersecano, per cercare una forma espressiva più coerente con le tensioni della contemporaneità. Questo comporta uno spostamento di punto di vista. L’opera d’arte nel nostro caso viene intesa come “contenitore di processi”, non è più il risultato a prevalere, ma il processo attraverso cui l’artista arriva a materializzare l’opera. Questo è insito in tutti gli artisti coinvolti nel progetto OA. Si può parlare, in questo senso, di una vera e propria “drammaturgia dell’opera d’arte” che determina l’azione teatrale.
Un esempio?
Nel caso del primo atto, siamo partiti dall’opera Gas di Alfredo Pirri, ispirata all’Olocausto, che ha guidato il progetto verso testi e musiche che potessero confrontarsi con il senso profondo dell’opera. È stato attualizzato il rapporto epistolare fra Theodor Adorno e Paul Celan sull’opportunità di scrivere poesie dopo Auschwitz. Lo storico e serrato dialogo tra il filosofo e il poeta, attraverso le musiche di Schönberg, ha offerto all’azione scenica la giusta energia per dialogare con l’opera di Pirri.
Come hai lavorato da un punto di vista registico con i performer?
In questo progetto la regia è determinante. I performer sono stati guidati a misurarsi culturalmente e fisicamente con le opere, prima che con i testi che io portavo vocalmente in scena. Il Teatro Studio è un teatro-laboratorio in cui decine di giovani si formano attraverso una costante sperimentazione. Gli attori di questo progetto hanno potuto incontrare gli artisti e far sedimentare maggiormente le pulsioni delle opere dentro il loro percorso creativo.
A proposito d’incontro diretto con gli artisti: Kounellis ha pensato un’opera ad hoc per il terzo atto.
Sì. È venuto al Teatro Studio per incontrarci e per “vivere” insieme a noi lo spazio. Il nostro teatro ha una grande graticcia di ferro che ricopre anche l’area dedicata alle platee. Seduti intorno a un tavolo, Jannis e io, fumando diecine di sigarette, che è un’abitudine che ci accomuna, abbiamo discusso molto. Lui ha disegnato lì dei primi bozzetti, tre grandi sacchi di teli usati per la copertura dei tir, riempiti di vecchi mobili, da “impiccare” alla graticcia, un cavallo e diecine di palle da biliardo.
Poi c’è stato Loris Cecchini…
L’opera di Cecchini collegava architettonicamente due platee che si specchiavano l’una nell’altra. La sera della prima la sua meravigliosa figlioletta, che era in una delle due platee, a un certo punto ha detto allo zio, che era seduto accanto a lei: “Scusa, devo andare a dire una cosa al babbo”, che era nell’altra platea. All’inizio della performance la bambina ha attraversato lo spazio, con straordinaria nonchalance… È stata un’azione imprevista ma di grande fascinazione.
Infine, Cristina Volpi.
Cristina Volpi ha progettato un abito da sposa in tessuto militare che io ho fatto agire da un danzatore, molto bello ma molto “maschio”. Ne è scaturita un’immagine forte. La prima volta che Cristina ha visto la scena, è stata colta da grande sorpresa: non aveva immaginato che quel suo abito potesse essere indossato da un corpo maschile così aitante. Mi è rimasta impressa la sua espressione di meraviglia.
Un bilancio di questa prima “edizione”?
Sicuramente la gioia più grande è stata il riuscire a mettere assieme due pubblici diversi che non s’incontrano mai: quello del teatro e quello dell’arte contemporanea. A progetto concluso, almeno in questa sua prima fase, devo dire che l’esperimento ha funzionato. Abbiamo visto teatranti, attori, scenografi, professori universitari incontrarsi con collezionisti, galleristi, critici d’arte. Mi ha reso felice poter mettere a disposizione di giovani e giovanissimi spettatori l’esperienza di grandi maestri.
Non dimentichiamo la presenza in questo progetto di uno dei più grandi artisti contemporanei viventi, Enrico Castellani, che quando ha assistito alla prova generale si è commosso fino alle lacrime. Mi ha detto: “Ho visto qui rinascere una mia opera, ‘Il muro del tempo’, che consideravo dimenticata”. Ha anche enormemente apprezzato il fatto che la sua opera “pittorica”, diventando scenario, svelasse il respiro fra il pieno e il vuoto, la dimensione “altra”, organica, che da sempre lui cerca e propone. Per me è stata un’esperienza straordinaria aver potuto essere testimone di uno dei più grandi artisti del mondo vivere questa percezione con la meraviglia di un bambino.
Com’è stata la reazione della critica?
Ho constatato in maniera preoccupata il fatto che in Italia non ci sia una critica teatrale pronta a confrontarsi con sperimentazioni che affrontino la trasversalità del teatro: quando la critica analizza un lavoro scenico, parla di teatro attraverso il teatro continuando di fatto a considerare l’arte a compartimenti stagni, come se continuasse a non accettare i mutamenti dell’esistenza e degli sguardi. Non c’è relazione tra le discipline, invece sarebbe fondamentale per poter affrontare la cosiddetta crisi, che richiede di unire le forze per contrastarla, non solo dal punto di vista economico, ma etico.
Quali prospettive immagini per il progetto OA?
Non amo molto la circuitazione: quando l’opera viene estirpata dal contesto nel quale nasce, diventa un’altra cosa. Credo molto nella stanzialità: perché spostarla? Mi piacerebbe molto di più far muovere le persone! Nel caso di ri-allestimenti in spazi diversi, ogni atto andrebbe decisamente adattato: non credo nella riproducibilità, il qui e ora del teatro è uno dei valori che ne mantengono ancora viva l’esistenza, oggi più che mai.
Per quanto riguarda il futuro di questo specifico progetto, sto già pensando al coinvolgimento di altri artisti per il prossimo anno. Inoltre, al Teatro Studio sto creando un laboratorio attivo permanente per i linguaggi dell’arte, un punto di riferimento nazionale che fonda i processi di formazione con quelli di creazione.
Michele Pascarella
www.compagniakrypton.it/teatrostudio.html
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