L’idea del realismo
La crisi (come indica l’etimologia del termine: distinzione, valutazione, discernimento) è la transizione consapevole da uno stato di realtà a un altro. La crisi è una soglia e al tempo stesso una trasformazione. Che richiede la totale e radicale riconfigurazione dei paradigmi, dei punti di riferimento che regolano la percezione del mondo. E della realtà.
“Una vita, Jimmy. Lo sai che cos’è?
È quella merda che succede mentre
aspetti momenti che non arrivano mai”.
Lester Freamon a Mcnulty in The Wire
(terza stagione, episodio 9, 2004)
“A me interessano i libri che stanno a cavallo fra un genere e l’altro. Sotto un certo punto di vista, prendono di petto il mondo reale; sotto un altro, fanno da mediatori e modificano il mondo, come i romanzi. Lo scrittore è una presenza palpabile sulla pagina, che rimugina sulla società, che le dà vita con un sogno a occhi aperti, che vi lascia cadere il suo tipo di magia linguistica. Quello che voglio è il mondo reale, con tutte le sue asprezze, ma il mondo reale totalmente immaginato e totalmente scritto, non solo riferito” [1].
È abbastanza chiaro che l’esigenza di far rinascere una civiltà si manifesta proprio quando un’altra sta morendo, o è già morta. È inutile e dannoso tergiversare sulla soglia, per paura di ciò che c’è al di là: occorre attraversarla.
“Viviamo in tempi difficili: l’arte dovrebbe essere difficile (il mio obiettivo è di rendere ogni paragrafo il più sconcertante possibile)” [2].
Assieme al mutare di queste declinazioni, si assiste già infine alla costruzione di ciò che le sostiene: vale a dire, un nuovo – e antico – sistema morale di riferimento. Fatto di: generosità, condivisione, serietà (a tratti anche crudele), responsabilità, dignità, efficienza, intelligenza al servizio della soluzione dei problemi (e non del loro aggravamento), austerità, frugalità (e non avidità e ingordigia).
“Vuoi affrontare la realtà, Aaron, eh? Sei capace di affrontare la realtà, almeno una volta?” (Cal ad Aaron in La valle dell’Eden, Elia Kazan 1955).
“Critica […] significa questo. L’argomento dei postmoderni era che l’irrealismo e il cuore oltre l’ostacolo sono emancipatori. Ma chiaramente non è così, perché mentre il realismo è immediatamente critico (‘le cose stanno così’, l’accertamento non è accettazione!), l’irrealismo pone un problema. Se pensi che non ci sono fatti, solo interpretazioni, come fai a sapere che stai trasformando il mondo e non, invece, stai semplicemente immaginando di trasformarlo, sognando di trasformarlo? Nel realismo è incorporata la critica, all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno” [3].
“‘Insensato,’ dissi io. ‘Siamo venuti qui a cercare il Sogno Americano, e ora che ci siamo finiti dritti dentro, te ne vuoi andare’. Gli afferrai il bicipite e strinsi. ‘Devi capire’, dissi, ‘che abbiamo trovato il nervo principale’. ‘Lo so’, fece lui. ‘Ed è proprio questo che mi fa paura’” [4].
In Italia, la negazione assoluta di ogni potenzialità è essa stessa un campo magnetico favoloso. La compressione estrema delle opzioni coincide, di fatto, con la loro moltiplicazione esplosiva. Viviamo una di quelle situazioni che si creano una volta in ogni secolo, al massimo. Le vibrazioni negative che percuotono, infatti, tutti i giorni e a tutte le ore l’immaginario collettivo italiano costituiscono già una texture poderosa: hanno costruito un’atmosfera che dovrebbe riconfigurare radicalmente tutte le modalità di rappresentazione del reale.
L’ostacolo? La stessa rappresentazione del reale è disinnescata, da troppo tempo, dalla stessa paura comune che dovrebbe scatenarla. È intrappolata tra l’evasione e la rimozione del disagio. “Radicalmente” non è un avverbio granché apprezzato. Invece di tematizzare questo disagio, la cultura spettacolare continua infatti a dedicarsi all’elaborazione della vita parallela attraverso la nostalgia (“i bei tempi andati”) e la consolazione (“vedete, non è poi così male”). Quando ciò che vedremo sullo schermo, sulla pagina o nello spazio espositivo combacerà stranamente con la realtà esterna, illuminandola e interpretandola, vorrà dire che un nuovo atteggiamento sarà divenuto finalmente pratica diffusa.
Il ritorno alla e della realtà sarà anche il momento in cui non dovremo più rimpiangere le idee e i progetti che non si sono mai realizzati, perché ce ne saranno altri, sorprendenti e duri, inesorabili e scintillanti, che non sarebbero mai esistiti senza l’attraversamento di questo deserto. E che esisteranno, nella propria forma e attitudine, solo grazie all’esperienza di questo attraversamento.
Christian Caliandro
[1] David Shields, Fame di realtà, Fazi, Roma 2010, p. 86.
[2] Ivi, p. 103.
[3] Maurizio Ferraris, Manifesto del New Realism, “la Repubblica”, 8 agosto 2011; poi in “alfabeta2”, 9 settembre 2011, www.alfabeta2.it/2011/09/09/manifesto-del-new-realism/.
[4] Hunter S. Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas [1971], Bompiani, Milano 2008, p. 50.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
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