“La mia mente non può inventare più di tanto.
Quindi camminerò, finché non potrò più inventarmi
altre strade, o facce, o discussioni… o dettagli.
È solo che ci sono così tanti dettagli!”
Sam Tyler in Life On Mars
(Usa 2008, prima puntata)
Questo libro enuncia verità – le nostre, di noi qui e ora.
Benvenuti nel Tempo dell’Astio.
Giuseppe Genna, Assalto a un tempo
Devastato e vile (2001; 2002; 2010)
Riscoprire il realismo significa, per esempio, adottare finalmente un punto di vista diametralmente opposto a quello che siamo abituati da anni a definire come ‘autoreferenzialità’, e che vuol dire sostanzialmente negare l’esistenza della realtà esterna (la società, la storia, l’immaginario, l’economia, insomma la vita individuale e collettiva), per paura o disinteresse (o entrambi), rinchiudendosi in un recinto fatto di convenzioni. Un recinto in cui gli oggetti culturali sono sempre perfettamente prevedibili, non modificando di una virgola la percezione e l’interpretazione della realtà. Proprio perché con essa quest’arte nata morta non intrattiene alcun legame.
Ciò che cambia radicalmente dunque, in un’ipotesi realista, è l’approccio, la ‘disposizione’ nei confronti del mondo: la fiducia nel fatto di comprenderlo attraverso la cultura, e che attraverso questa comprensione si possa produrre un cambiamento. Niente di nuovo, da noi in Italia – così come altrove – è già successo: basta pensare ad alcuni romanzi e film dei secondi Anni Quaranta. Il che, naturalmente, non vuol dire che bisogna mettersi a rifare opere neorealiste: ma certamente, opere che abbiano nel contesto attuale quella stessa potenza.
La differenza tra i due atteggiamenti può essere per il momento sintetizzata così: è quella che intercorre tra negare il disagio individuale e collettivo attraverso la fuga dalla realtà (per quanto uno si dichiari, a parole, ‘realista’), e fare invece del disagio e della frustrazione il tema centrale della propria opera. Realismo è dunque trasformare l’elemento paralizzante nella spinta propulsiva, interrogandolo ossessivamente invece di rimuoverlo.
Guardate queste tre opere. Astraetele dai nomi e dai premi, ignorate per un attimo il cicaleccio (immancabile), il rumore bianco delle piccole beghe, la parodia di una lotta tra bande tipica del recinto-sistema dell’arte all’epoca del suo declino. Qual è il concetto che vi viene in mente? Decorazione? Deliquio. Queste opere sembrano abbandonarsi a una sorta di deliquio di fronte al mondo, a tutto ciò che le circonda. Sembrano costruite in una specie di camera iperbarica mentale.
Queste opere tendono a escludere completamente dallo sguardo i conflitti presenti nella realtà (mentre le opere realiste i conflitti li espongono: il loro compito è quello di esacerbare, esasperare e far esplodere le contraddizioni: la cultura non è e non può essere un orpello, perché serve a mostrare chiaramente, crudelmente anche, i guasti di un’identità comune). Nel caso di questi oggetti, è come se provenissero invece da un altro mondo: più pulito, monocromatico, in cui non accade nulla di sporco e in cui tutti i pezzi sono al loro posto.
La riprova (una riprova) è che quei pochi scontri di cui si fanno, talvolta, ‘portavoce’ sono immancabilmente scontri preconfezionati, precostituiti. Scontri comodi, per così dire – e come tali, chiaramente impossibili, del tutto finzionali, allestiti appositamente per presentare la versione consolatoria di uno scontro (culturale, sociale, economico). Scontri in cui si sa già chi vince (chi ha vinto), e da che parte stare. D’altra parte, il non prendere mai posizione – nascondendosi di volta in volta dietro la Storia reificata, il design, una versione ipersemplificata della scienza, e in generale dietro regole linguistiche concepite e disegnate come minimo quarant’anni fa (quando non erano forse regole, ma mezzi studiati per fuoriuscire da altre regole) – è consustanziale a questi oggetti, e al loro funzionamento.
E quindi? Ammesso e non concesso che uno spettatore volenteroso tiri fuori da un oggetto muto tutta la mole di informazioni necessaria a interpretarlo (che sta sempre fuori rispetto all’oggetto, da qualche altra parte, e non è mai da esso contenuta interamente), siamo proprio sicuri che: 1. queste informazioni servano davvero a interpretare l’oggetto muto (e non siano invece semplicemente appiccicate addosso a questo), e soprattutto che 2. queste informazioni ci dicano qualcosa su noi stessi, sul tempo che stiamo vivendo, su quello che ci apprestiamo a vivere?
La sensazione è che il contemporaneo dell’arte contemporanea – italiana e non solo – sia sempre più mummificato, cristallizzato in un ‘non-tempo’ (come gli oggetti e le persone in Crystal World, 1966, di J. G. Ballard), sottratto agli scossoni e ai sommovimenti del mondo là fuori. Ma anche, inevitabilmente, alle sue gigantesche trasformazioni. Sganciato da ciò che conta davvero: lo spirito del tempo. E per un “contemporaneo” che si rispetti, questo rappresenta
un problema bello grosso.
Esiste, allora, un modo diverso? Esiste la possibilità di stabilire un contatto vero, diretto con la realtà?
Christian Caliandro
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