Le strategie dei musei per ovviare ai draconiani tagli di bilancio? Sono di varia natura. Volendo semplificare, si possono individuare alcuni punti su cui tutti si trovano concordi:
1. riduzione quantitativa delle mostre, che sono le attività più dispendiose;
2. valorizzazione delle collezioni attraverso un lavoro interno, con la schedatura delle opere e apertura alla didattica in modo stabile e continuativo;
3. collaborazione con il collezionismo privato;
4. ricerca di sponsorizzazioni o di una base di sostegno economico da parte di “Amici”, sostenitori vari e altre formule di autofinanziamento.
All’interno di questo scenario, il primo punto è sicuramente salutare: negli ultimi anni l’attività di produzione di mostre è stata sempre più frenetica ed è giusto, quindi, che ora si rallenti, puntando sulla qualità e non sulla quantità a tutti i costi. In questo modo le mostre possono durare alcuni mesi, diventando piattaforme di studio e approfondimento attorno alle quali costruire e collegare eventi e momenti di confronto.
Anche il secondo punto è positivo: è sulle collezioni che si costruisce la fama e la possibilità d’attrazione dei musei, che devono tornare a essere vissuti come patrimonio della comunità. Chi può farlo, fa benissimo a intensificare non solo la schedatura delle opere di cui è proprietario o depositario, ma anche a creare uno stretto rapporto con il territorio attraverso la valorizzazione e pubblicizzazione delle collezioni permanenti.
Il terzo punto, invece, è il più delicato: il collezionismo è un arcipelago diversificato in termini di interessi e di volontà autentica a fare cultura. La debolezza del pubblico è un rischio di autonomia istituzionale e, se i musei almeno sono attrezzati con professionalità che conoscono i limiti di certe collaborazioni, i comuni e gli enti locali sono scoperti di fronte alle offerte di “mostre pacchetto” a cui manca solo un luogo di prestigio per diventare importanti. Scegliere è importante, il gioco di interessi dietro il contemporaneo coinvolge molto collezionismo nostrano, e con tutta la buona fede possibile, chi possiede centinaia di opere di un determinato artista o gruppo, ha troppo spesso interessi più economici che culturali collegati.
Il quarto punto appartiene invece… all’Iperuranio: il fund raising in Italia serve più a offrire dei costosi master a giovani laureati-disperati. Crisi o non crisi, chi dà contributi all’arte, se non può defiscalizzare, si limita alla presenza. Solo la leva fiscale può aiutare i musei, e anche il mercato che ne ha necessità, per ripartire. Gli “Amici” restano una parte minoritaria dei bilanci, i sostenitori sono utili, ma non sono mai determinanti. Dedicheremo un apposito capitolo della nostra rubrica all’analisi di questa situazione, perché merita un approfondimento separato.
Quindi, in uno scenario che richiede una delicatezza estrema e che non ha prospettive immediate di chiarimento, probabilmente il museo dovrebbe tornare a essere il luogo di scoperta dei giovani talenti. Adesso entrano soprattutto quelli che già hanno messo un piede nel sistema. E se si ripartisse dalla post-accademia? Se i musei si aprissero, con poca spesa, ai giovani veramente, quelli che hanno meno di 30 anni e che hanno bisogno di confronti, di verifiche e giudizi che spesso vanno a cercare nelle periferie post-industriali, nei centri sociali, nelle gallerie che aprono e chiudono nel volgere di un anno solare? Giovani artisti in cerca di uno status, prima ancora che di denaro, bussate alle porte dei musei, senza farvi raccomandare da nessuno. Anche in Italia bisognerà prendere la buona abitudine di rispondere, anche solo cortesemente, a tutti.
Valerio Dehò
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #6
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati