L’idea del realismo (III)
Il “neorealismo” non fu una scuola. (Cerchiamo di dire le cose con esattezza.) Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. (…) La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo. (Italo Calvino)
Realismo oggi non significa, naturalmente, riproporre l’arte didascalica, noiosa, falsamente politica realizzata e proposta in uno stile che abbiamo imparato a conoscere e a riconoscere – nostro malgrado – come “Manifesta-Anni-Novanta”. Niente di tutto questo.
E neanche la figurazione come discrimine o criterio distintivo, ci mancherebbe: sarebbe come definire realista un romanzo solo perché ha una trama solida, ben costruita, e personaggi credibili. Le ragioni, le motivazioni e i criteri del realismo risiedono, e vanno ricercate, un po’ più in profondità.
Gian Arturo Ferrari ha giustamente e lucidamente definito “libroidi” i finti romanzi e i finti memoir che infestano gli scaffali di librerie e biblioteche: “Quegli oggetti cioè che dei libri hanno tutte le fattezze, sia fisiche, sia commerciali, sia propriamente libriche (dispongono di un autore – anche se a volte solo nominale -, di un editore, di un copyright, spesso di un indice), ma dei libri non hanno l’anima. O, più umilmente, non hanno il capo e la coda, l’invenzione di una storia, il bene di un concetto, un autore vero” (Nel mondo degli pseudolibri, “la Repubblica”, 1° aprile 2012). In che senso “finti”? Non come “finzionali”, ma come “inautentici”. È una forma molto popolare di antiletteratura – non c’è forse altro modo di definirla – che ha occupato nell’ultimo trentennio integralmente lo spazio della cultura mainstream, erodendo quello della letteratura e confondendo le acque. Non è che prima essa non esistesse: ma era prudentemente confinata nel recinto della “letteratura per signorine” (Liala & co.).
Libroidi, dunque: ma se ci pensiamo bene, anche nelle gallerie e negli spazi istituzionali dell’arte abbondano oggetti che assomigliano alle opere d’arte, ma non lo sono realmente. Mimano l’opera d’arte, ne possiedono tutte le caratteristiche superficiali (e infatti ingannano con estrema facilità gli occhi e i cervelli meno esperti): ma non funzionano come un’opera d’arte. È una cultura di “ultracorpi”, fatta per ultracorpi; di simulacri che servono altri scopi rispetto a quelli della cultura umana (che consiste in: definire la nostra posizione nel mondo; definire il senso dell’umano). Simulazioni di senso, che non producono senso perché quello non è il loro obiettivo; non sono neanche informazioni (almeno non nel senso che attribuiamo al termine, e al concetto): Visitors, piuttosto. Sono strumenti, rivolti sempre altrove e ad altri territori, ad altri risultati: questa produzione culturale e artistica, in questo senso, è veicolata strumentalmente ed esorbita continuamente dai suoi territori – assolutamente non in direzione creativa e conoscitiva (attingere ed elaborare fatti, dati, immaginazioni). Essa cioè nasce, vive e muore sempre al di fuori di sé, distaccata da sé – e permane quasi con fastidio nelle vesti tradizionali, transitorie (il “libro”, l’“opera”, il “film”, il “disco” ecc.).
Questa cultura – letteraria, artistica – è anche, lo si capisce bene, eminentemente antirealista. E questo a discapito di tutte le dichiarazioni esplicite e strombazzate, che vanno regolarmente in maniera opposta: “Ma come, antirealista io, che mi interesso degli Anni Settanta, degli emigranti, dell’interdisciplinarietà, della fisica quantistica, di geopolitica, della guerra, della crisi e delle sue conseguenze sul degrado urbano ecc.?”. Certo. Perché l’antirealismo è un’operazione che consente di sganciare con cura ogni singolo tema – quelli sopra elencati, e molti molti altri – dal mondo circostante, dal contesto a cui appartiene (un contesto di relazioni, di rapporti causa-effetto, di storia e di storie, di racconti e di autorappresentazioni: di critica) e di trattarlo autonomamente, di svolgerlo accademicamente come un compitino.
E, badate bene, “accademicamente” va qui inteso nel senso più letterale possibile: secondo le regole, le convenzioni e le restrizioni imposte dall’accademia del postconcettualismo-postminimalismo-postognicosa. Un’accademia che impone, ancora una volta – un’imposizione implicita, e proprio per questo potentissima – l’esibizione di un linguaggio iperdefinito al di fuori del contenuto, e del messaggio (le “cose che uno ha da dire”), secondo una rimasticatura frettolosissima di Marshall McLuhan (“il medium è il messaggio”). Questa arte, semplicemente, non è curiosa: prende sempre la via più breve, anche e soprattutto quando si esprime nei modi più involuti e labirintici. Siamo da tempo oltre lo svuotamento di senso, giunti e attestati su: “Sono davvero convinto di stare dicendo qualcosa, e qualcosa di importante con il mio lavoro, anche se non ho la minima idea di che cosa significhi esattamente ‘dire qualcosa’, e se è per questo anche ‘importante’. So solo che va fatto, è una sensazione che va trasmessa, altrimenti sono fuori gioco, e non verrò mai accettato: non mi interessa, e non è compito mio, capire perché accade questo. Sono le condizioni che ho trovato, per quanto mi riguarda è stato e sarà sempre così, sapere se e come potrebbe essere diverso non mi riguarda affatto (ed è anche un po’ da sfigati, se vogliamo dirla tutta)”.
Il che vuol dire, in altri termini ancora più chiari, la dissociazione ultima e totale dell’arte rispetto alla realtà, il grado massimo (forse) di schizofrenia raggiungibile: il punto in cui l’arte ha abdicato completamente non solo alla sua funzione (: spiegare, oltre alla realtà, ciò che si nasconde sotto e dietro di essa, il suo lato inconoscibile e innominabile), ma ad ogni funzione – che non sia la mera autoperpetuazione. Autoconservazione, che si traduce inevitabilmente nella conservazione tout court.
Allora, il discrimine tra una posizione “antirealista” e una schiettamente, nuovamente “realista” consiste nella fiducia che la realtà – esistente, e non costruita socialmente – sia conoscibile, e perciò stesso trasformabile. Non esiste realismo senza critica della realtà, e ferma volontà di cambiarla: “Il realismo è la premessa della critica, mentre all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza, la favola che si racconta ai bambini perché prendano sonno” (Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo).
Christian Caliandro
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