“Ragazzi, ma dove vivete voi?”
Marcello Dell’Utri (18 Luglio 2012)
La zona oscura italiana – in cui siamo sprofondati tutti – si materializza in termini espliciti in un gruppo di romanzi che declinano il modulo narrativo della post-apocalisse, e che richiamano L’uomo verticale (2010) di Davide Longo, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante e Bambini bonsai (2011) di Paolo Zanotti.
Al genere post-apocalittico appartiene di diritto anche La seconda mezzanotte – ambientato nella Venezia quasi interamente sommersa del 2092 e ricostruita in forma di luna park crudele da una multinazionale cinese -, in cui Antonio Scurati riesce a condensare e a trasfigurare i suoi temi prediletti (la fine dell’esperienza, la società dello spettacolo realizzata, la violenza mediata, la devastazione culturale italiana dell’ultimo trentennio, la narrazione storica proiettata in questo caso nel futuro) all’interno di un racconto fantascientifico dalla struttura solidissima, intessuto di richiami e rimandi: “A Nova Venezia, dove tutto è permesso, non due ma tre cose sono proibite. Portare armi da fuoco, avere figli e avere un dio. O un futuro. Che poi è lo stesso” (La seconda mezzanotte, Bompiani 2011, p. 40).
Su un piano di riflessione analogo, Walter Siti e il suo realismo paradossale – la sua riproduzione della realtà completamente infiltrata di finzione e riflessi artificiali, perfettamente integrata con essi e proprio per questo efficacissima – stanno raccontando in questi anni proprio la dissociazione tra immagine e mondo, dal di dentro. Coerentemente con questa visione, l’oggetto dell’indagine narrativa e speculativa di Siti si dilata dalla cultura di massa italiana alla mutazione occidentale nei meccanismi collettivi di percezione del mondo esterno attraverso l’immaginario: “Io sono l’Occidente: sia perché appartengo a quel tipo di omosessuali che hanno fornito il modello dell’Immagine come obiettivo del desiderio, sia perché come individuo singolare e irripetibile tendo a difendermi da ciò che mi ferisce mediante una sua trasposizione in immagine. Se mio padre muore, subito divento spettatore di una ‘morte del padre’. L’Europa non si sta forse trasformando in un continente di spettatori?” (Troppi paradisi, Einaudi 2006, p. 186).
È anche per questo che, in Resistere non serve a niente, Siti abbandona la forma precedente di autobiografismo iper-finzionale e fantasmatico in cui collassavano più dimensioni narrative (il “facsimile di vita”), per adottare il punto di vista ‘esterno’ di Tommaso, sintesi perfetta e spirito-guida nel mondo nuovo della vita smaterializzata: “Se giochi al rialzo sulle commodities alimentari per puro azzardo matematico, perché lì ti porta lo studio degli alberi binomiali, i grossisti si convincono che il prezzo del grano salirà e allora tengono chiusi i silos, sicché il prezzo del pane aumenta sul serio – nascono le rivolte, i sassi contro i forni; dopo aver sparato sulla folla i governi calmierano e i commercianti aprono i silos in fretta – il grano ridiscende ma intanto hai esercitato le opzioni e guadagnato quel che volevi guadagnare. Tu non hai fatto niente, hai solo scommesso su delle curve; sono quelli che hanno creduto nella realtà che han fatto morire la gente.” (Resistere non serve a niente, Rizzoli 2012, p. 138). Come l’autore stesso ha detto, incredibilmente nel corso della una puntata di Unomattina del 10 giugno 2012 (e sembrava davvero di assistere alla scena di un suo romanzo), l’unico modo per interagire con questa realtà in tumulto che ci circonda, e con i suoi differenti livelli, è “capire, capire, capire” (il riferimento è ovviamente al famoso “resistere, resistere, resistere” coniato da Francesco Saverio Borrelli il 12 gennaio 2002). E d’altra parte, che cosa c’è di più rivoluzionario e coerente, in un’epoca di ostinata idiozia, che dedicarsi a comprendere?
Infine, Paolo Sortino con il suo straordinario esordio Elisabeth romanza la vera storia della segregazione di Elisabeth Fritzl per ventiquattro anni da parte del padre, nella cantina di casa trasformata in bunker. Trovando così, molto probabilmente, il modo più potente di raccontare quella condizione di perenne “umiliazione collettiva” (Giorgio Vasta) in cui viviamo, lo spazio concentrazionario in cui viviamo immersi senza neanche accorgercene, “la quarantena domestica come opportunità di scorcio eccentrico, vetrino da laboratorio su cui adagiare se stessi e attraverso se stessi il mondo” (Graziano Dell’Anna): “Elisabeth si incamminò diffidente. Raccolse da terra il filo sottile di una catenina d’argento a cui era appeso un piccolo dado sul quale era incastonata un’unica pietra preziosa, che rimandava una luce intensa. La strinse nel pugno e tornò dal padre contenta, chiedendo le venisse allacciata. Quell’oggetto, una volta indossato, aveva la particolarità di non mostrare frontalmente la gemma, ma di tenerla sempre piegata su un lato. Era la metafora più esatta della vita che stavano facendo. Se quel luogo segreto, sotterraneo, aveva davvero una sua luce, essa s’intravedeva solo di profilo, nel taglio preciso che lo separava dal mondo, nel suo disegno restituito sul limitare delle ombre. Nulla della vita di superficie era paragonabile: il bunker era l’oggetto argentato che un’entità ben più grande, forse la storia dell’intera umanità, portava al collo” (Elisabeth, Einaudi 2011, pp. 124-125).
Christian Caliandro
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