Mentre l’arte italiana contemporanea, meno contemporanea della storia, si attarda nel cunicolo senza via d’uscita del solipsismo, un solipsismo piuttosto paradossale perché prescinde dal dato autobiografico (cfr. l’articolo di Gian Maria Tosatti, L’unica verità possibile), la letteratura più coraggiosa e visionaria si incarica di aprire nuove vie di indagini, e di inaugurare nuove declinazioni del realismo, inteso qui – a scanso di equivoci – come il sinonimo ed equivalente del “racconto-dalla-zona-oscura-dell’Italia”.
Anche nel cinema si intravedono i primi esempi di questa direzione. Esempi che, come sempre accade, non spuntano dal nulla e nel nulla, ma che si riferiscono a una lunga e nobile tradizione: quella del cinema d’inchiesta italiano degli anni Settanta (Rosi, Damiani, Bellocchio ecc.), che sapeva unire l’azione e il dramma all’indagine dei lati più inconfessabili del presente nazionale.
Non è un caso, allora, che ACAB (2012), tratto dal libro del giornalista Carlo Bonini, sia stato scelto per il suo debutto sul grande schermo proprio da quello Stefano Sollima figlio d’arte (il padre, Sergio, ha diretto alcuni tra i più importanti western politici degli Anni Sessanta) che con la serie tv di Romanzo criminale aveva fatto esplodere il nucleo narrativo del romanzo di Giancarlo De Cataldo, sviluppandone ulteriormente – con la collaborazione dello stesso scrittore, peraltro – i nodi che intrecciavano storia manifesta e storia “sotterranea” del Paese.
Con ACAB, Sollima sceglie di affrontare direttamente il cuore nero del presente italiano, utilizzando il punto di vista scomodissimo e spiazzante dei poliziotti in prima linea (i “celerini”) e raccontando l’irraccontabile: la frustrazione che si trasforma in violenza cieca; una nazione spossessata della sua identità che si trasforma in terreno di scontro tra bande brutali; l’assenza colpevole e imperdonabile della politica, ridotta a predazione e a visione di piccolissimo cabotaggio; la sistematica deresponsabilizzazione, individuale e collettiva, a ogni livello; la sopraffazione continua tra vinti (gli extra-comunitari, i teppisti, i poliziotti stessi: tutti noi).
Il gruppo di poliziotti che formano una banda illegale (“deviati”, si direbbe secondo un tipico lemma italiano) sono legati non solo dalla complicità delle loro scorribande notturne e crudeli, ma soprattutto dal silenzio attorno all’ultimo grande oggetto italiano di rimozione: il G8 di Genova, che aleggia come un fantasma nei pensieri e nelle azioni dei protagonisti. L’esistenza di tutti è cambiata la notte della Diaz e nella scena finale Mazinga (Marco Giallini), riconoscendo nel toponimo (“Maresciallo Diaz”) della piazza in cui si prepara la battaglia con i tifosi un presagio funesto, a un certo punto dice: “Me sa che stasera pagamo er conto”.
Attorno ai fatti e alle responsabilità di quella notte del 21 luglio 2001 – che precede di quasi due mesi l’11 settembre, ma che rappresenta il nostro 11 settembre – ruota esplicitamente Diaz-Don’t clean up this blood di Daniele Vicari. La ricostruzione è qui faticosa, difficile, traumatica proprio perché il trauma originario (che da politico è divenuto già storico) è stato rimosso dall’immaginario collettivo, e dalla nostra percezione. La rimozione si sostanzia anche dell’adattamento a narrazioni “ufficiali”, comode e accomodanti, prive di angoli e angolazioni disturbanti, come afferma del resto lo stesso regista: “Dieci anni dopo i fatti di Genova, la cosa che trovo più insopportabile è la rimozione della tragicità di questi eventi che cerco di raccontare in ‘Diaz’. E la rimozione del tragico, in termini sia storici che psicanalitici, è un meccanismo classico per scaricare governi e popoli delle responsabilità gigantesche che hanno. Le vicende di Genova riguardano una responsabilità anche collettiva, perché noi abbiamo accettato una ‘verità’ ufficiale senza opposizioni” (in E. Becattini, Dentro l’inferno della Diaz. Intervista a Daniele Vicari, “alfabeta2”, 13 aprile 2012).
Il racconto di questo trauma rimosso doveva essere dunque da una parte estremamente diretto, brutale, allo scopo di evitare ogni sorta di infingimento e di elusione; dall’altra, l’intreccio narrativo richiedeva di intrecciare i vari fili, i diversi punti di vista e di ritornare continuamente al suo nucleo, secondo uno schema che – nel suo ritornare continuamente al nucleo per ripartire da esso seguendo un’altra direttrice – si ispira esplicitamente a The Killing-Rapina a mano armata (1956) di Stanley Kubrick (modello che a sua volta, tanto per dire, fu usato come “base” da Quentin Tarantino per smontare e ricostruire Pulp Fiction, 1994).
Nonostante le rispettive costruzioni “difficili” (e forse, in fondo, proprio per questo), ACAB e Diaz si presentano come oggetti narrativi estremamente compatti, sia nella forma che nell’atteggiamento, nuovo, di fronte alla realtà: non più di fuga in mondi immaginari – attraverso l’interazione artificiale tra figurine inconsistenti – ma di scavo negli aspetti più crudi e ruvidi del tempo che ci è dato di vivere.
Christian Caliandro
Stefano Sollima – A.C.A.B.
Italia / 2011 / 112’
Daniele Vicari – Diaz
Italia / 2012 / 120’
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