Esiste però qualcosa che la narrazione apocalittica non può permettersi.
Non può mostrare alcun collegamento con la condizione storica
e collettiva che la incrementa o la ingenera,
con quella depressione di cui gli economisti temono di fare il nome.
Helena Janeczek, Depressione
(Nazione Indiana, 24 novembre 2011)
Potrà nascere in avvenire una letteratura totalitaria,
ma sarà completamente diversa da qualsiasi cosa
noi si possa oggi immaginare. La letteratura, come noi la conosciamo,
è un fatto individuale, che esige onestà mentale e un minimo di critica.
George Orwell, Nel ventre della balena (1940)
Gli zombie sono il cambiamento. Fu così nel 1968, quando Night of the Living Dead di George A. Romero trasportò il cinema – non solo horror – in una dimensione ulteriore, fondendo rappresentazione documentaria e allegoria culturale, tra mutazione sociale e presenza/assenza della guerra in Vietnam. E lo fu, ancora di più se possibile, dieci anni dopo, quando il sequel Dawn of the Dead fornì l’archetipo per il ritratto della fine occidentale: l’implosione del dispositivo spettacolare, il rispecchiamento definitivo tra i morti viventi e i vivi morenti, la disintegrazione dell’ordine collettivo a partire dalle relazioni sociali ed economiche. Il mall come sistema concentrazionario contemporaneo.
Questa è stata la base per lo sviluppo degli zombie al tempo della crisi. Ad opera, certo, dello stesso Romero (autore di una vera e propria Commedia postmoderna, che segue l’involuzione storica dell’Occidente in tutte le sue fasi: dal cupissimo Day, 1986, al marxista Land, 2005, dall’ipertecnologico Diary, 2007, allo “shakespeariano” Survival, 2010); ma anche di autori giovani e nuovi, che hanno declinato il tema nel contesto attuale. Non solo registi, come lo Zack Snyder del remake adrenalinico – e tutto sommato decorativo – di Dawn of the Dead (2004) o il Ruben Fleischer della commedia grottesca Zombieland (2009).
Ma anche e soprattutto scrittori, che connettono la tradizione “zombesca” ai suoi risvolti più attuali. Lo Stephen King di Cell (2006), ad esempio, attualizza L’ombra dello scorpione (1978) raccordando la fine del mondo alla società delle comunicazioni. Robert Kirkman, nella graphic novel The Walking Dead, divenuta poi serie televisiva di culto per il canale AMC, sviscera l’apocalisse nei suoi aspetti più intimistici e psicologici: la fine è prima di tutto fine dell’uomo, delle emozioni, dei rapporti affettivi tra gli individui.
Le paure comuni, al tempo della crisi, si situano esattamente negli interstizi tra solitudine crepuscolare e globalizzazione selvaggia, tra cultura digitale e ritorni a schemi primitivi di dominazione. Gli zombie sono così, ancora oggi e chissà per quanto, una delle metafore più potenti a disposizione dell’immaginario collettivo. Da una parte, secondo la logica del rispecchiamento, sono i cittadini-consumatori, svuotati ed estenuati prigionieri di una sorta di distopia sociale installata negli stessi cervelli. Morti. Ma, al tempo stesso, sono un’allegoria del presente in senso diverso, e opposto: rappresentano il cambiamento, la trasformazione. La rivoluzione. Lo zombie è l’elemento incontrollabile, imprevisto e basico che mette in scacco un intero ordine che si credeva indiscutibile e insostituibile. Lo zombie è una funzione – misteriosa – della novità. È lo Sconosciuto che bussa alla porta della Storia, spinto dal bisogno elementare.
Lo zombie è, addirittura, la critica stessa: nel momento stesso in cui è la figura fondamentale dell’Altro, del rimosso. Uno “scarto” totale che si ostina a sopravvivere, e a minacciare i cosiddetti vivi: uno scarto che pensa in modo diverso e laterale, uno scarto radicale e resistente. La zombie apocalypse – genere narrativo e immagine sintetica al tempo stesso – sta per la ribellione.
Così, lo zombie è l’annuncio di una nuova era, di una nuova specie, di un nuovo ordine – materiale, mentale, culturale – che sovverte e soppianta quello precedente. E che funziona secondo regole e convenzioni completamente differenti. È per questo, forse, che anche gli zombie sono apparsi a un tratto a Wall Street: la protesta dei morti viventi (vale a dire: tutti noi ) contro un mondo morente che pretende di controllare l’esistenza collettiva.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7
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