Tempo fa Christian Caliandro mi aveva invitato a un confronto. Non avevo buoni argomenti per la testa che esulassero dalle quattro mostre che stavo preparando allora e rimandai il proposito a tempi migliori. Oggi che mi trovo in vacanza forzata a Roma ho il tempo di spaziare nelle letture e di farmi provocare da certe intuizioni, ne raccolgo una proprio di Caliandro, che nell’ultima (per ora) tappa del suo saggio a puntate sul realismo, cita una definizione di Gian Arturo Ferrari (per la spiegazione rimando direttamente al saggio relativo pubblicato su questa rivista). La definizione è “libroidi” o finti libri. E, riferito all’orizzonte letterario, essa definisce perfettamente quei prodotti che in maggioranza si assommano sugli scaffali e che di solito si acquistano per la buona intuizione di grafici da copertina o per la buona sintesi dei compilatori di quarta. Caliandro afferma ciò che è lapalissiano, cioè che quei libri non hanno niente a che fare con il realismo. Per quanto siano focalizzati, a volte, anche su precise questioni politiche di un certo momento storico o su documentate circostanze biografiche e di costume, essi sono, di fatto, fuochi (inteso in senso ottico) al di fuori del contesto, e dunque fuochi fatui. La storia inizia e finisce lì. Sì dà come prodotto da consumare all’interno del suo perimetro. Inscatolato, come le orchidee. Quel che manca è appunto il contesto, ossia ciò che sovrasta, motiva e dà dimensione al dettaglio di cui si parla, ciò che lo rende “rilevante” perché “incidente”. Ecco, mi pare d’aver capito che per Caliandro sia proprio questo che fa di un libro un’opera realista, la sua capacità di incidere sulla realtà.
È chiaro che qui si parla di letteratura per dire di arte, e a dir la verità mi riproponevo di uscire dalla metafora per affrontare il tema del realismo artistico sul suo campo più crudo, quello delle mostre, delle fiere… Avevo pensato di scrivere di come ultimamente mi capiti di vedere opere intercambiabili: la stessa opera, a Basilea firmata da X, a Miami firmata da Y, a Torino firmata da Z, una clonazione formale che poi però, quando vai a chiedere, propone giustificazioni concettuali differentissime. Eh… potere del logos, premesse diverse e risultati uguali… poteri dell’inautenticità. Volevo proprio parlare del fatto che l’opposto del realismo fosse proprio questa continua filiazione estetica che procede per via ottica, questa clonazione del gusto che procede indipendentemente dall’identità.
Ma poi un imprevisto mi ha fatto cambiare piano facendomi decidere di non uscire dalla metafora e di restare nel campo che Caliandro, indirettamente, mi propone, quello dei libri, perché in questi giorni un amico, Corrado Beldì, collezionista e amante d’arte, mi ha fatto dono di un volumetto preziosissimo, in modo inatteso, arrivato per posta, senza preavviso. È un libello quadrato edito e curato da Vanni Scheiwiller. Il titolo è Elide. L’autore, Franco Francese, pittore milanese attivo nella seconda metà del secolo scorso. Resto, dunque in campo letterario, per forzare ulteriormente un ragionamento che ho già fatto qualche mese fa su un’altra rivista, parlando del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Dicevo allora di come i pittori siano narratori eccezionali, perché sfuggono all’andare a vuoto della lingua e portano nella parola la materia e il suo peso corporeo. Il libro di Francese è un ricordo della sua compagna e raccoglie tutte le opere che lui le ha dedicato. Non una grande produzione, qualche disegno e qualche quadro, un percorso un po’ avulso dal resto della produzione pittorica dell’artista. Francese quasi se ne duole di questa esiguità nel testo che chiude il volume, un breve testo che ripercorre la storia della relazione fra lui ed Elide appunto. È forse una delle cose più belle che abbia mai letto.
Un racconto disarmante che chiude un libro crudelissimo, di un’umanità definitiva. Il ritratto letterario procede in parallelo con l’evoluzione dei disegni, dai primi profili accennati a grafite e sognati della ragazza che un giorno il pittore non aveva potuto seguire sull’autobus per Novara perché gli “mancava qualche lira per il biglietto”, ai ritratti a olio che man mano arrivano a penetrare quella figura oltre l’apparenza, a rivelare il lampo degli occhi anche quando li dipinge chiusi, fino a far apparire, negli ultimi anni, la linea rossa di una coperta tirata, nella parte bassa della tela, ad alludere a una malattia che si fa strada fino a conclamarsi nell’ultima opera, L’addio del 1981, ritratto di una potenza quasi indicibile, raggelante.
Percorro questo libricino avanti e indietro, lo leggo e lo rileggo. Ha una scrittura semplice eppure nella mia testa non riesco a non collocarlo fra le pagine grandi della letteratura. E il motivo è proprio quello che Caliandro mi suggerisce all’orecchio: questo libro ha i crismi del realismo. In effetti, i due paragoni immediati che mi viene da fare mentre leggo sono con la letteratura di Louis-Ferdinand Céline e con le canzoni di Piero Ciampi, due campioni del realismo. Ad accomunare Francese e Céline c’è addirittura una tensione particolare fra il caos armato attorno a cui gira l’opera dei due autori, i loro ritratti a tinte cupe, cupissime, impietosi di rosso-sangue, nero-polvere, e i cambi di tono, spiazzanti, quando in mezzo a quell’inferno in terra di cui si parla nelle loro opere, compare, per un momento, la figura della propria compagna. Nella lotta di stracci e sputi che compone la cosiddetta Trilogia del Nord di Céline, dove ogni uomo non è più nobile di un pidocchio (autore compreso), i soli momenti di altezza, di commozione, di vera umanità, sono i pensieri dedicati a Lili, compagna di fuga del vecchio Bardamù tra le rovine della Germania del ’44, tra bombe, freddo delazioni e infamie. È di questo che parla un volumone di quasi mille pagine, della fuga di un uomo nell’Europa in fiamme, un racconto quasi privato, che non alza mai la testa dai propri passi e dai propri inciampi e che però raccoglie, forse come nessun altro libro, la verità di quegli anni terribili, anni di rimosso collettivo, che invece Céline inchioda sulla pagina in questo suo racconto privato, con la stessa forza con cui aveva reso anni addietro quella che resta forse la più chiara e lancinante fotografia del Novecento, nel Viaggio al termine della notte. Anche lì, storia di uno, vicenda privata – “cazzi suoi” avrebbe detto lo stesso Céline – e che però resta la Guernica della letteratura mondiale, l’immagine più emblematica della caduta degli dei nel baratro del Secolo Breve.
E poi dicevo Piero Ciampi, che ancora mi ricorda Francese, la sua voce di cantautore semisconosciuto degli anni Sessanta, che parla sempre e ancora sempre di sé, di sua moglie, dei loro sguardi incrociati in un palazzo di giustizia dove si consumavano gli ultimi atti ufficiali di un amore non finito. E l’unica certezza è che in nessuna di quelle canzoni la voce dell’autore tremi per un’omissione di verità. Ciampi non mente mai.
E mentre penso a tutto questo, mi ricordo di una conversazione di qualche settimana fa con Alessandro Facente, di un suo proposito per un articolo da scrivere che non so se poi scriverà. Ma, tra il serio e il faceto delle nostre conversazioni abituali, mi diceva che gli artisti hanno smesso di parlare di sé. Eravamo alla presentazione della mostra finale del Whitney Studio Program, uno dei più prestigiosi programmi di residenza al mondo, dove tutti si erano improvvisati attivisti politici, movimentisti in stile Occupy Wall Street, con in mano il kit completo dell’indignado, estetica compresa. Una rassegna di luoghi comuni copia-incollati che non poteva non risolversi in un auto-annullamento per inefficacia della forma e del messaggio, in una parola, per inautenticità. E camminando per la Bowery, Facente mi dice: “Gli artisti non parlano più di sé e così non parlano più di niente in verità”. Il virgolettato è mio, ma, più o meno, sintetizza il senso del discorso. Ed effettivamente è proprio così. Restiamo spesso perplessi di fronte ad opere che si propongono di affrontare la realtà in un orizzonte cronachistico, quasi impersonale, quasi che la “ricerca” sia scindibile dall’ “essenza”.
I lavori, invece, di cui abbiamo parlato in questo articolo, il libro di Francese, il Cristo si è fermato a Eboli di Levi, i romanzi di Céline, le canzoni di Piero Ciampi, sono tutte esperienze intime, più ancora che autobiografiche. “Cazzi loro”, come direbbe Bardamù, ma proprio per questo sono le loro verità. E siccome la verità è sempre una sola, tutti quei libri sono la verità, la loro che non può essere diversa dalla nostra. E così ecco che quelle opere che sembrano autoreferenziali, escono dal perimetro di concentramento del “libroide” ed infettano ogni contesto, di ogni contesto sono specchio. Così nella vicenda privata di Céline si rivela la ventura del Novecento meglio che in qualunque saggio di storia contemporanea, così nelle poche pagine di Francese, nel suo prezioso raccontino, c’è tutto lo spirito di un trentennio, quello dell’Italia del dopoguerra, attraversato da due artisti compagni, che sembrano infilarsi un una galleria sempre più buia, in cui fanno a tempo a proiettarsi le ombre della “disperata solitudine” di Sironi, della vitalità di Kokoschka ad una Biennale di Venezia di cui non si ricorda nemmeno l’anno e poi più niente, solo quell’interno aguzzo di quell’ultimo quadro, quel letto grande in cui Francese si stenderà da solo ancora per qualche anno a dirci la verità sulla morte, l’unica verità possibile, quintessenza del realismo.
Gian Maria Tosatti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati