Il mistero delle Figlie di Dio
Lei si chiama Federica Valabrega ed è una fotografa romana trapiantata negli States. L’abbiamo conosciuta qualche mese fa e ha firmato per Artribune Magazine un eccezionale reportage da Bushwick, il quartiere più artistico della Grande Mela. Sempre in giro per il mondo con un taccuino e una macchina fotografica, sta ora portando avanti un progetto sulle donne ebree ortodosse. Da Brooklyn a Gerusalemme.
Com’è nata l’idea della serie fotografica Bat Melech (Figlie di Dio)? Ho letto che ci stai lavorando già da due anni…
Quando ero bambina ho imparato a leggere con il libro Danny l’eletto di Chaim Potok, un autore ebreo americano che descriveva la vita di questi due amici ebrei, uno ortodosso e uno non religioso per le strade della Williamsburg ortodossa degli Anni Novanta. Questo libro, che tuttora mi porto dietro ovunque vado, ha segnato la mia adolescenza e la mia crescita interiore come donna ebrea nata e cresciuta in un Paese a maggioranza cristiana.
Nelle pagine di Potok si parlava di “ebrei ortodossi che si incamminavano verso le loro yeshivot vestiti con i loro cappotti neri” e questa frase mi ha sempre incuriosita. Così due anni fa, quando sono venuta a vivere a Brooklyn per lanciarmi nella carriera di foto-reporter, non ho potuto resistere e sono finita a scattare per le vie di una Brooklyn ortodossa simile a quella descritta da Chaim Potok.
Il tuo progetto, però, è al femminile.
Nell’estate del 2010 ho deciso di concentrarmi soprattutto sulle donne ortodosse perché ho sempre pensato che le donne ebree custodissero un mistero che a me sarebbe piaciuto svelare. In principio ho sofferto la sindrome “dell’estranea tra noi”, vagando a zonzo per la Kingston Avenue di Crown Hights senza meta e senza un’idea chiara in testa di cosa fotografare. Dopo poche settimane ho definito un vero e proprio obiettivo: avrei studiato, conosciuto e fotografato la bellezza spirituale che è racchiusa nelle Bat Melech, le figlie di Dio, donne che nell’ortodossia ebraica sono considerate preziose come i rotoli della Torah e per questo si coprono il corpo di abiti scuri. Sono donne che si pensa non lavorino e si occupino solo di fare figli; invece dirigono il focolare, studiano la Torah, insegnano Filosofia alla Columbia University o lavorano alla Goldman Sacks come consulenti finanziarie. Esistono donne ortodosse emancipate e indipendenti, che non sono affatto sottomesse dai mariti e che non vivono in una religione patriarcale.
Una cosa tira l’altra, le foto sono aumentante e sono state pubblicate su BurnMagazine, su D di Repubblica e sul New York Times Magazine.
Ora ti sei spostata in Israele. Per quanto resterai?
Sarò qui per tre mesi con l’obiettivo di immortalare l’altra parte di queste donne, quelle ritornate in Terra Santa. Voglio che questo progetto diventi un libro e questa esperienza è diventata non solo un’impresa giornalistica notevole, ma anche una ricerca spirituale profonda.
Qual è stata la risposta della comunità ebraica ortodossa finora?
Quella della comunità ortodossa Lubavitch di Crown Heights a Brooklyn è stata ottima. Non ho mai avuto alcun problema, anzi, ora quando cammino per Kingston Avenue mi riconoscono anche e, a volte, mi chiedono se posso scattare delle fotografie ai matrimoni o ai bar/bat mitzvas. Spesso, se ho tempo, lo faccio.
Anche le comunità ebraiche israeliane mi stanno accogliendo bene, ma qui è molto più difficile fare una generalizzazione perché ne esistono moltissime e ancora faccio fatica a individuarle all’interno dei mille quartieri sparsi per Gerusalemme. Finora ho scattato dentro la comunità di haredim Breslov, un paio di Litvish e ultimamente mi sto concentrando molto sulle donne Dati Lumi, le ortodosse sioniste. Nonostante siano tutti meno aperti dei Lubavitch, ho potuto intervistare alcune donne e fotografarle. Qui in Israele l’asticella è molto più alta. Le donne sono più riservate e più religiose di quelle di Brooklyn e spesso le foto non sono gradite. Il kotel, o muro del pianto, per adesso è il mio posto preferito per fare conoscenza con queste donne che poi magari mi danno appuntamento a casa loro o i posti più privati dove poter parlare senza essere disturbate.
In Israele hai trovato una situazione molto più complessa, quindi?
Sì, ho trovato una situazione molto più complessa. Qui non ci sono solo ortodossi, ci sono anche gli ultra-ortodossi e, per complicare le cose ancora di più, sono tutti suddivisi in gruppi, quindi magari anche se si va in un quartiere – come il famoso Meah Shearim – non si sa mai chi si sta fotografando fino a che non si riconosce che tipo di copricapo e di gonna hanno le donne. Sto imparando le varie caratteristiche e ogni giorni ne vedo di diverse. Per esempio, mi è capitato di vedere delle donne interamente vestite di nero, con tanto di cappuccio e viso coperto. Sembravano musulmane, ma ci ho parlato e mi hanno detto che sono ebree yemenite.
La fotografia sia per te uno strumento di ricerca, una pratica attraverso la quale capire meglio il mondo?
Assolutamente sì. Più passano i giorni, più capisco che ormai non sono io che decido e vado in cerca di qualcosa che non so, ma questo qualcosa mi si manifesta davanti nella forma umana di queste donne, che, in qualche modo hanno qualcosa da condividere. Le nostre conversazioni sono lunghi discorsi sulla vita, sulla spiritualità, sull’amore, sul sesso, e su come la religione le aiuta o le ostacola. È una specie di catarsi reciproca da cui si esce più forti.
Parte di questo progetto fotografico è stato auto-finanziato tramite il crowdfunding, con il sito Kickstarter. Puoi raccontarci com’è andata? Sei soddisfatta di questa esperienza? Consiglieresti questo strumento di finanziamento ai giovani fotografi come te?
Sono contenta di com’è andata con Kickstarter, ma se non ci fossero stati amici e familiari a promuovermi forse non sarei arrivata ai 3.700 dollari finali. Non sono ancora una fotografa famosa e quindi mi sono dovuta auto-promuovere molto. Ho scritto sul mio blog Federicaville, ho mandato tantissime email, ho scomodato amici in ogni parte del mondo. Kickstarter è un buon mezzo, ma non funziona da solo, bisogna spingere molto nella propria direzione.
Inoltre, sono riuscita a raccogliere fondi anche grazie alla Matanel Foundation e alla Comunità Ebraica di Roma (il prossimo inverno farò una mostra fotografica al Museo Ebraico).
Progetti per quando tornerai da Israele?
Mi organizzerò per capire come pubblicare questo libro e per fare qualche mostra, sia a Roma che a New York. Voglio che “le storie delle mie donne” siano viste e condivise in tanti luoghi. Poi, magari chissà, potrei finire in Germania a fare un libro di foto per viaggi con una nuova casa editrice. La mia vita è sempre un’incognita; non so mai dove sarò il mese successivo e a cosa lavorerò. È questo che dieci anni fa mi ha spinto a non fare la dottoressa e a scegliere la vita di fotografa nomade: scarpe, taccuino, macchina fotografica, passaporto e biglietto aereo sempre in mano. The sky is the limit.
Valentina Tanni
www.federicavalabrega.com
www.federicaville.com
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