Il performer che si ispira alle suffragette
È reduce dal Rapid Pulse international performance festival di Chicago, dove ha presentato “Persona”. Il norvegese Ane Lan, al secolo Eivind Reierstad, ci racconta le linee di una ricerca che attraversa lo spazio della performance. Per indagare, a livello esperienziale e intrapsichico, la relazione tra performer e spettatore.
Partiamo dal nome. Ane Lan è uno pseudonimo. Rimanda a un gruppo di persone che lavorano insieme e al contempo indica una figura femminile, quindi un’identità mobile…
Ane Lan è un adattamento del nome Anne Land, una delle prima attiviste del movimento delle suffragette d’inizio XIX secolo nel Regno Unito. Nei raduni politici la Land era solita indossare abiti maschili con l’obiettivo di scatenare sensazionalismo nelle fila più conservatrici della stampa britannica. Si trattava di una strategia di visibilità volta ad alimentare il cambiamento, quello che avrebbe dato vita al movimento che nel 1903, solo un anno prima della sua morte, porterà il voto alle donne. La mia fascinazione per questa figura nasce dal riconoscimento della sua forza, dall’attrazione per un’intelligenza capace di superare i condizionamenti sociali e culturali imposti alla donna del suo tempo e avviare un vero e proprio processo di cambiamento storico.
È qui la matrice del cross-dressing che è il tratto distintivo di performance come Sirkel, Dream Chamber, Migrating Birds?
Quando si analizza la tradizione del cross-dressing nei media – che di solito coincide con l’immagine di uomini travestiti da donne, come nel caso di Dame Edna – il discorso si inscrive nel quadro del genere comico, della teoria di genere o dentro le argomentazioni legate alla liberazione sessuale. Il mio interesse per questo fenomeno, al contrario, deriva da un altro tipo di fascinazione, quella derivante dal fatto che queste figure rappresentano in fondo personaggi senza sesso, la cui immagine veicola qualcosa che si stacca dalla connotazione sessuale per collocarsi nel luogo d’indecidibilità, diventando quindi un terreno straordinario di proiezione per lo spettatore.
La super-esposizione del tratto femminile – intesa come possibilità di creare spazi per l’espressione della sfera emozionale – è nella mia idea una presenza più complessa. Penso in questo senso alle riflessioni di alcune femministe contemporanee e ai Gender Studies, che ridiscutono il ruolo attuale del maschile in una società sempre più “femminilizzata”. Mi piacerebbe, inoltre, che queste figure che abitano la mia scena potessero rispecchiare e infine incarnare la funzione dei medium, degli antichi oracoli, di coloro che sono capaci di accedere al nostro subconscio (collettivo), indagando le fantasie contemporanee còlte nel seno di vecchi miti.
Guardando le tue opere performative in una prospettiva panoramica, possiamo riconoscere un desiderio di problematizzare l’alterità. È evidente nella performance Persona…
Sì, posso dire che la maggior parte del mio lavoro investiga e organizza l’incontro con l’altro, una connessione tra persone che può attivarsi a più livelli. Lo spazio performativo mi interessa come luogo dove indagare – a livello esperienziale e intrapsichico – la relazione tra performer e spettatore. Da artista visivo, la mia attrazione per la dimensione scenica non nasce da un amore per il teatro in quanto tale, ma da una più ampia riflessione sul tema della visualità in relazione alla cultura dominata dall’industria dell’intrattenimento, dai rituali new age, dal mondo dei videogiochi e, dunque, da un’attrazione per il piano dell’esperienza in-presenza. Qui credo si possano declinare le facce e i collassi di quei fenomeni della realtà di cui parlavo prima rivelandone il rovescio. A Spiriti, per esempio, è una performance centrata sul concetto di “anima”, Persona non a caso si focalizza sulla nozione di “magnetismo” esplorandone gli aspetti psicologici e concettuali.
Quali sono state le fonti di ispirazione di Persona?
Lavorando su questo nuovo progetto sono stato molto ispirato dalla recente riscoperta delle “femministe” futuriste e dai loro manifesti. Penso a Valerie de Saint-Point, Mary Wigman, Vera Fokina e altre. Le idee e le azioni di queste artiste sono state importanti per la loro epoca, anche per il cinema di Hollywood tra gli Anni Trenta-Quaranta, ma il loro contributo in qualche modo risulta misconosciuto. Valerie de Saint-Point ha pubblicato manifesti dove proclama le prime idee femministe intrecciate con le teorie della danza, il potere della sessualità legato all’arte, il misticismo ispirato da antichi testi della religione siriana. Con queste figure in mente ho provato a percorrere i fili di quella “storia nascosta” degli studios cinematografici di Hollywood, popolati da make up artist, costumisti, assistenti, personal trainer, che sono per lo più uomini gay.
Un altro elemento di ispirazione di Persona è decisamente l’omonimo film di Ingmar Bergman del 1966. Il film racconta un dramma interiore e mette in primo piano il rapporto fra un’attrice hollywoodiana divenuta afasica e la loquace infermiera che si prende cura di lei. Di fatto le due donne protagoniste sono “fuse” in un processo osmotico e transferale che prende avvio dall’assenza di linguaggio – per mutismo autoimposto – da parte di una delle due. Quello che mi ha molto interessato è stato muovere oltre la dimensione di transfert di personalità e i meccanismi proiettivi che sono in gioco in questa relazione tra due corpi.
Il tuo immaginario negozia costantemente con l’idea di “amatorialità”. Si tratta di una strategia che rifugge quell’idea di efficacia patinata propria dell’immagine commerciale e, al tempo stesso, implica un fuori posto…
C’è sempre un problema con le definizioni e le categorizzazioni. Questa è la modalità con cui ci si relaziona alle manifestazioni nei campi dell’arte. Cosa non è “professionale”? Anche questo aspetto necessita una negoziazione concettuale e deve essere rivisto di continuo. Personalmente cerco di concentrarmi su ciò che è interessante per me, e sulle possibilità che intravedo nello spazio della performance da artista visivo. La relazione con lo spettatore apre uno spazio di ricerca che difficilmente può essere fatto altrove. Impiegare elementi che hanno i tratti dell’amatorialità è un modo per sottolineare questo interesse per la relazione, dunque per la sua fallibilità. Sono molto cauto nell’uso dell’etichetta “teatro” per indicare il mio lavoro, perché vorrei – utopicamente – che fosse possibile annullare e ricreare il termine da zero ogni volta. La cosa più stimolante per me è quando gli artisti sul palco “falliscono”, nel senso che rivelano la possibilità di scivolare fuori della costruzione simbolica e dai frame che li inquadrano. Questo è il modo per tradire la legge non-scritta delle convenzioni teatrali e quindi di attestarsi su di un altro piano d’azione.
Come agisce la costruzione della materia sonora in questa direzione?
Credo nello statuto egualitario e non gerarchico di tutti gli elementi del lavoro scenico. L’impiego di un certo suono, l’uso di uno strumento musicale, naturalmente, stabilisce una connessione con una specifica cultura, si inserisce nel solco di una certa tradizione, rimanda a una precisa composizione. Questo è il dato da cui parto per poter rompere le connessioni. In generale posso dire che sono molto ispirato dalle riflessioni e dalle opere dai compositori come LaMonte Young, Morton Feldmann, penso cioè alla centralità della percezione, delle vibrazioni attivate a livello cellulare.
Le strumentazioni tecniche, così comunemente incorporate nella performance contemporanea, dovrebbero essere lì con un preciso intento simbolico, non esclusivamente per assecondare una patina glamour. Ogni dispositivo tecnologico ha anche una sua storia e simboleggia qualcosa di specifico a livello dell’immaginario. Penso ad A Spiriti. In questa performance, che si presenta come una seduta spiritica modellata su quelle praticate alla fine del XIX secolo, per proferire la ballata di cui sono autore utilizzo un microfono così da amplificare leggermente la voce. In realtà non sarebbe affatto necessario, data la vicinanza con il pubblico con cui condivido un dispositivo scenografico pensato come uno spazio circolare chiuso da una tenda di tulle nero. Qui lo strumento tecnico, che veicola il canto, è impiegato per sottolineare essenzialmente il fatto che si sta “dando una voce”.
Ritornando ad Anne Land: cosa pensi della relazione arte-azione politica?
Con il mio lavoro performativo provo a suggerire metodi per espandere il campo del pensiero cosciente. Non mi aspetto che un progetto artistico possa agire e modificare direttamente la realtà, né penso l’arte come qualcosa che possa avere un peso politico diretto. Per me è più importante pensare la progettualità artistica come un modo per costruire connessioni di pensiero, formare una comunità pensante che coinvolga il pubblico, gli artisti e la società in generale. Credo, tuttavia, agli effetti indiretti, quelli che si producono dall’essere connessi, dal dialogo e dallo scambio. Queste connessioni possono influenzare le decisioni a livello politico.
Piersandra Di Matteo
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati