Scolpire alle porte di Milano
Nel suo studio, in un paese alle porte di Milano, regnano una calma rassicurante e un disordine controllato. Classe ‘81, Daniele Veronesi si diploma all'Accademia di Brera in scultura e si prepara a partire per una residenza di tre mesi negli Usa presso The Wassaic Project. Come molti scultori contemporanei, cerca di definire nuovi codici e di superarne i confini. La fase processuale a volte è il punto di partenza e di arrivo, perché per lui il limite è “un anelito ad andare oltre le forme, visioni e prospettive”.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Il libro di sabbia di Borges, Cecità di Saramago e Lampi di Jean Echenoz, mentre la musica che ascolto spazia dalle Variazioni Goldberg di Bach a Kanye West. Ma più di ogni altra cosa adoro sentir cantare la mia ragazza sotto la doccia.
I luoghi che ti hanno affascinato.
New York, Gerusalemme, un’antica fortezza in Sicilia che convive con un immenso petrolchimico. Infine la Val Trebbia, luogo a cui sono molto legato.
Le pellicole più amate.
Le Avventure del Barone di Münchausen, C’era una volta in America, Fino all’ultimo respiro, Professione: reporter, Il cacciatore, Il posto delle fragole.
Artisti guida, oltre a Leonardo da Vinci, Mondriaan e Dan Graham…
Malevič, perché ammirava Mantegna; Duchamp e Pevsner perché erano amici; Tadao Ando per la sua semplicità, e Bill Viola. Poi Anthony McCall, Olafur Eliasson, Gerhard Richter, per come sanno usare la luce, e Matthew Day Jackson.
Sei uno scultore, ma sembri più interessato alla fase processuale che al risultato finale. Penso all’opera Prospettive rovesciate.
Il processo di creazione è fondamentale per ottenere quello che ho in mente: dare forma al pensiero che crea una struttura in evoluzione. L’aspetto interessante è gestire la fase processuale in ogni sua parte per controllarla e non deviare; ma nel procedimento esiste una fase di scarto ed errore altrettanto importante. È un sottile equilibrio che va sempre rispettato.
Mi ha colpito una tua affermazione quando dici di “stressare” il medium che scegli fino alla sua massima tensione. In che modo?
Provando e riprovando, in base alla situazione. Ad esempio, durante un workshop al Museo Zauli ho utilizzato un materiale come la ceramica, morbido e malleabile, per realizzare lavori che avessero una struttura e una tensione non proprie della materia, dando luogo a un contrasto fin quasi alla sua rottura. Anche con Calanchi ho usato il cemento, materiale solitamente ritenuto rigido e resistente, che diventa contemporaneamente morbido e fragile. Quello che mi piace fare, “stressando” il medium, è lasciar emergere qualità non evidenti nel materiale preso in considerazione.
Hai usato il video in più occasioni. Ma anche lì la protagonista, in fondo, è la scultura.
È una questione d’amore. Amo molto la scultura e le sue possibilità. Il video per me è un medium nuovo, ma si sposa molto bene con la scultura, dandole movimento ed esaltandone la plasticità.
Hai portato su superficie bidimensionale dei comuni strumenti per misurare lo spazio che mi hanno fatto pensare alle lezioni di Educazione Artistica alle scuole medie. Disegnando con inchiostro e pennarello, ad esempio, una squadra o una maschera per cerchi ed ellissi. È come se fossi ossessionato dallo studio dei meccanismi della visione.
Lo studio dei meccanismi della visione è per me fondamentale. Il mio lavoro Strumenti per misurare lo spazio è un omaggio a questi oggetti che sempre mi hanno aiutato a realizzare delle forme. In questo caso, gli oggetti si presentano prima di tutto nella loro valenza estetica, perché chi vuole fermarsi a questa soglia possa farlo; ma qualcuno può scegliere di andare oltre, e magari sprofondare sempre più in altri significati.
Stai ultimando un (bel) lavoro video realizzato in stop motion in cui volutamente sveli il “dietro le quinte”. Anche qui ti soffermi sui meccanismi complessi del rappresentare.
Mi cimento in cose costruite dall’inizio alla fine, applico un principio di relazione e trasformazione tra vari media, lasciando i materiali liberi di esprimersi e cercando di mantenere le distanze dallo specifico, che è il contrario dell’idea del tutto. Nel realizzare il lavoro nel suo svolgersi mi sono fatto coinvolgere da sistemi complessi, campi magnetici e doppie spirali, e anche lo “scarto” tecnico è diventato luogo naturale della sua evoluzione. Citando Donald Judd: “La cosa come un tutto, la sua qualità nella sua interezza, è ciò che interessa”.
Tentare di superare i limiti per offrire nuove prospettive significa lavorare anche sugli “errori”, sull’imperfezione?
Penso sia inevitabile: le prospettive sono piene di errori e cambiano in base al nostro modo di vedere, come da sempre accade, e questo significa superare i limiti.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #8
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