Storia di un impiegato diventato artista
Negli otto mesi trascorsi all'interno di un ufficio come impiegato dice di aver sofferto moltissimo. Eppure, ancora oggi, a sessantacinque anni, continua a lavorare come un dannato. Non conosce pause. E da buon giapponese è metodico negli orari: se ne sta seduto al tavolo da disegno otto ore al giorno, sei giorni su sette. Questo non toglie nulla alla poetica e alla leggerezza che è propria dei suoi racconti. Così Jirō Taniguchi, il più europeo dei mangaka, racconta la sua vita.
Ama il cinema d’autore giapponese. Ma anche – e soprattutto – quello francese. Eh sì, sembra proprio che Jirō Taniguchi non possa fare a meno di guardare all’Europa come una fonte d’ispirazione. È uno sguardo ammirato, il suo. Non c’è invidia nei suoi occhi. E neppure imbarazzo. Anzi. Piega il busto e lancia un’occhiata diritta all’Occidente. Consapevole che è proprio lì che si trova il cuore della nuova espressività.
Non a caso questo giapponese che ha appena compiuto sessantacinque anni è da tutti riconosciuto come il più europeo dei mangaka. Una definizione, questa, che non gli sta affatto stretta. Piuttosto lo riempie d’orgoglio. “Sì, per me è un complimento. Eccome”, spiega Taniguchi. Ma da dove nasce il suo amore per il fumetto europeo? “Fin da piccolo ero solito far visita a una libreria della mia città specializzata in fumetti d’importazione. Lì potevo sfogliare e acquistare le opere di molti autori europei. Essendo sempre stato un collezionista, ogni volume lo sceglievo con grande attenzione. Ero attratto soprattutto dai disegnatori italiani come Sergio Toppi e Vittorio Giardino”. E il vero motivo di attrazione, al di là della costruzione narrativa delle storie illustrate, per il giovane Taniguchi era proprio l’uso della matita e della china. “Il segno degli autori italiani era qualcosa di particolare e bellissimo. Le loro illustrazioni avevano un fascino che non apparteneva certo alla cultura manga”.
Nonostante abbia speso queste parole lusinghiere per gli autori italiani, Jirō Taniguchi non è certo persona che rinneghi o si distacchi dalla sua terra. Tutt’altro. Lui che ha faticato non poco a diventare – come desiderava – un autore di fumetti, nelle sue storie, con un segno leggero capace di scandire i ritmi giusti della sua narrazione poetica, ha raccontato frammenti della sua vita. Da Chichi no koyomi (Al tempo di papà) a Harukana machi-e (In una lontana città), Taniguchi ha condiviso se stesso con il mondo. “Queste due storie, in particolare, nascono proprio da esperienze personali. Ma non si tratta di biografie”, ci spiega l’autore. “Del resto è impossibile negare ciò che è per me evidente: ogni storia, nessuna esclusa, nasce da episodi vissuti. Si tratta di un’influenza naturale e imprescindibile”.
In Italia – Paese che gli ha reso omaggio con due mostre, prima alla Triennale di Milano, poi nel corso dell’ultima edizione di Lucca Comics & Games – i suoi romanzi grafici sono stati pubblicati da Panini Comics, Rizzoli Lizard e Coconino Press. Ed è proprio la Coconino ad aver pubblicato la traduzione della serie Ai tempi di Bocchan, cui Taniguchi ha cominciato a lavorare insieme a Sekikawa nella metà degli Anni Ottanta. Un racconto che parte dall’epoca Meiji per creare poi un focus sulle conseguenze dell’era moderna che stava portando il Giappone all’apertura verso l’Occidente.
In questo lavoro – così come è accaduto per Icaro, opera realizzata in collaborazione con Moebius – Taniguchi si è trovato a lavorare fianco a fianco con disegnatori e sceneggiatori diversi. Nonostante la critica premi soprattutto le produzioni realizzate come autore unico, Taniguchi sembra però preferire di gran lunga le opere realizzate a quattro mani. “Lavorare insieme a qualcun altro mi ha sempre facilitato. Le collaborazioni mi hanno permesso di aprire nuovi scenari”, spiega Taniguchi. “Senza il lavoro e l’aiuto di uno sceneggiatore non avrei mai potuto immaginare alcune scene. Lo ammetto: ci sono cose e situazioni a cui non penserei mai. Non solo. Spesso ho faticato molto nel tentativo di esprimere ciò che avevo in testa. E a volte non sono neppure riuscito a ottenere il risultato sperato. Insomma, lavorare come autore unico mi piace, è appagante. Ma realizzare progetti congiunti è un valore aggiunto, perché allarga il mio orizzonte”.
E pensare che Jirō Taniguchi, di strada, ne ha fatta parecchia. Ha versato lacrime e sangue. Ma non è un problema legato alla mole di lavoro. Perché un autore come lui continua ancora oggi a lavorare sei giorni su sette, otto ore al giorno. “Nei soli otto mesi in cui ho lavorato come impiegato”, ci confessa, “stavo molto peggio. Anzi, stavo malissimo”. Ha cominciato a disegnare dall’età di tre anni. E non ha più smesso. Però il giovane Jirō non aveva la benché minima idea di come si diventasse un disegnatore professionista. “I miei genitori si arrabbiavano perché non facevo che disegnare sempre. È vero, sottraevo tempo allo studio. Ma la mia vera passione era il disegno. Vivevo in un piccolo paese del Giappone”, racconta ancora. “Poi dovevo pur mangiare… Quindi decisi di trasferirmi a Tokyo per trovare lavoro. Fui assunto come impiegato e per otto lunghi lunghissimi mesi ho trascorso le mie giornate in ufficio. E soffrivo, soffrivo moltissimo”.
Sempre a Tokyo incontra Kyota Ishikawa. Un autore già famoso nel Giappone degli Anni Sessanta, che lo assume come suo assistente. “Il lavoro era duro, ma in quel momento mi sono sentito liberato. Volevo vivere in questo mondo. Quella era la mia vita. E sarei stato felice anche se avessi continuato a fare l’assistente per sempre”. Poi gli si presenta davanti la grande opportunità. Nel 1971, un anno dopo la sua prima pubblicazione – la storia breve Kareta heya (La stanza arida) – riesce a vincere l’ambito premio Big Comic con il manga Tōi koe (Voci lontane). “La vittoria di quel premio così importante mi ha permesso di seguire il cammino professionale e artistico. Mi ritengo quindi un uomo e un artista soddisfatto”.
Gianluca Testa
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