Terremoti e presepi
Molti tra voi avranno presente Lubiana. Di Lubiana, fra l’altro, abbiamo parlato proprio ieri. Nel nostro reportage dalla Slovenia e dalla sua capitale facciamo un accenno al grande terremoto del 1895. La scossa interessò anche l’Italia, Trieste in particolare, anche se ancora italiana non era, ma l’epicentro fu a Lubiana. Venne giù circa un decimo degli edifici, gli altri furono danneggiati. La città approfittò dell’evento per ripensarsi.
La Lubiana che vediamo oggi, la piccola capitale ariosa, verde e gradevole che conosciamo, la città che si è da poco aggiudicata (anche questo lo segnaliamo nel nostro reportage) un importante premio europeo per lo spazio pubblico, è figlia di quella drammatica circostanza. Di più: a pensarla così fu un italiano, l’architetto e urbanista Max Fabiani. Fabiani disegnò il nuovo piano regolatore della città e alcuni tra i più significativi palazzi di una piccola capitale che, nella sua architettura ecletticamente Liberty, cerca di fondere le pesantezze e le classicità austro-ungariche con la soavità italiana. Il resto di Lubiana è barocco, direte voi. Giusto, com’è possibile? E perché proprio barocco? Semplice: a causa di un terremoto. Il micidiale sisma del 26 marzo 1511 (come si sa la Carnia, il Friuli, la Slovenia sono zone molto soggette) fu parecchio distruttivo e, all’atto di ricostruire, le facciate della gran parte delle chiese, i monumenti, le fontane e il palazzo del Comune vennero realizzati – come appare ovvio – con lo stile dell’epoca.
I terremoti, soprattutto quando si costruisce male badando più ai soldi da risparmiare onde poi poterne confezionare mazzette, sono eventi tragici e, allo stesso tempo, enormi opportunità che la civiltà deve cogliere per andare avanti. Le città hanno una grande chance di cambiare, aggiornarsi, migliorare, inserire elementi innovativi in tessuti a volte immobili da anni o secoli. In Italia tutto ciò, oggi, è diventato una bestemmia. Appare impensabile, come si è sempre fatto in tutto il mondo (Italia compresa), ricostruire con lo stile dell’epoca in cui il sisma avviene. Cos’è successo? Perché siamo diventati paurosi, incapaci di ripensarci? Perché guardiamo indietro a non avanti?
Italia compresa, dicevamo. Già. Passiamo dalla Venezia Giulia alla Sicilia. I due estremi. Val di Noto, 1693: trema mezza Sicilia. Il più grande terremoto che, a memoria d’uomo, abbia mai colpito l’Italia. Catania aveva 20mila abitanti, ne morirono 16mila; Ragusa dimezzò la sua popolazione. Un dramma cui si reagì con una delle architetture più fantastiche di sempre. Noto, Modica, Siracusa, Catania (ripensata anche urbanisticamente, secondo una pianta modernissima), Ragusa sono tra i luoghi più affascinanti del mondo perché, a cavallo tra Seicento e Settecento, in Sicilia a nessuno sarebbe venuto in mente di ricostruire “dov’era, com’era”. Ancora Sicilia, trecento anni dopo: Belìce, notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968. Con tutti i distinguo del caso, l’evento sismico di quarantacinque anni fa portò in dote il progetto di una città-museo progettata dai più grandi artisti e architetti del mondo (Gibellina Nuova) e la più spaziale opera di Land Art che l’essere umano potesse immaginare: il Cretto di Alberto Burri a Gibellina Vecchia.
Insomma, lo abbiamo fatto anche noi e abbiamo smesso di farlo. E pare che non lo faremo neppure in Emilia dove, come già accaduto in Umbria, si procederà alla realizzazione di presepi, di Disneyland postsismiche: “Dov’era, com’era”. Siamo ancora in tempo per porre in essere politiche diverse e in linea con quello che chiunque a parole dichiara di perseguire: la crescita. Se si vuole crescere, dopo un momento distruttivo si ricostruisce non come prima, bensì meglio di prima. E comunque, in ogni caso, diverso da prima. Siamo ancora in tempo in Emilia e, atrocemente, siamo ancora in tempo anche a L’Aquila.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #8
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