Presentati alla 32esima edizione del festival Drodesera, We Folk!, Il giro del mondo in 80 giorni e Grand tour, ultimi lavori della compagnia Mk, sono spettacoli ma anche progetti, “tragitti coreografici”, il tentativo (riuscito) di creare un rapporto dialettico tra geopolitica contemporanea e pratica coreografica del corpo in scena, dando vita a un organismo performativo capace di aprire i nodi e le questioni legate alla contemporaneità, della danza e della storia relazionale dell’uomo nei confronti del territorio e dei suoi simili.
Prendendo le mosse dal romanzo di Jules Verne, il territorio geografico si pone in relazione concettuale e pratica con il “territorio” spettacolare, alla ricerca dei campi di forza che accomunano o differenziano le due dimensioni di coesistenza. Ugualmente la distanza e il tragitto da caratteri del viaggio si fanno elementi relazionali tra i corpi in scena. Ne parliamo con il coreografo Michele Di Stefano.
Da quale esigenza nasce il progetto che da Quattro danze coloniali viste da vicino porta a Il giro del mondo in 80 giorni?
L’idea nasce dalla lettura di un saggio di Peter Sloterdijk, un filosofo tedesco, un selvaggio. In un suo libro notava come Verne in Il giro del mondo in 80 giorni avesse anticipato una questione cruciale rispetto alla percezione dello spazio in un universo capitalista. Nel romanzo di Verne lo spazio è quello della merce, del commercio, completamente privo di ostacoli. In tale ottica nel tragitto tra A e B non ci deve essere nessuna interferenza, e deve essere garantita la reversibilità del percorso. Il romanzo di Verne narra la storia di un personaggio che ha bisogno di individuare costantemente spostamenti e passaggi rapidi, motivo per cui è costretto a tenere lontano da sé qualunque imprevisto emotivo.
Lo spettacolo nasce dall’idea di spazio morto, uno spazio che non contempla la deviazione o l’incidenza. Perciò, anche dal punto di vista coreografico, abbiamo lavorato sulla distanza e l’avvicinamento fra i corpi, su come questa distanza possa portare con sé delle problematiche interessanti e come l’incontro possa generare il malinteso, fino, anche, alla necessaria rinuncia al proprio progetto.
In questo senso penso alla danza centrale…
Quello è il cuore da cui poi tutto si dipana [momento coreografico in cui Michele Di Stefano dal lato della scena lancia verso il centro un gruppo consistente di palline che si diffondono sulla scena in modo casuale, influenzando la partitura coreografiche e le direzioni del movimento dei danzatori, N.d.R.] significa proprio questa politica di progetti iniziati e poi abortiti perché il progetto della persona che ti sta accanto non coincide con il tuo. Per questo cerchiamo sempre di avere danzatori o performer che si uniscono a noi solo un giorno prima dello spettacolo, ma con i due danzatori di William Forsythe – David Kern e Roberta Mosca – che sono di nuovo con noi anche questa volta, è nato un rapporto particolare. Poi c’è la mia ossessione per il turismo, per la geografia e per l’invenzione della geo-politica…
Che relazione c’è tra “territorio in senso geopolitico” e “territorio in quanto spazio scenico” fatto di relazioni tra corpi e dispositivi?
Per quanto riguarda il territorio, trovo fondamentalmente la questione dell’invenzione dei confini. A tal proposito la cartina dell’Africa è incredibile, perché la metà dei confini presenti sulla cartina sono frontiere evidentemente create da una mano esterna, a cui il territorio non corrisponde naturalmente. Questo trasposto in danza è all’origine di alcune problematiche, tra le quali la più interessante consiste nel cercare di capire come sia possibile che lo spazio inventato dal corpo, quindi quasi emanato da questo, diventi un territorio confinabile. Cioè: come è possibile che a generare lo spazio sia l’identità umana nella dinamica di movimento, nel procedere nello spazio, piuttosto che lo spazio a generare la dimensione umana? In riferimento alla danza questo problema non è un problema astratto, quanto invece inerente la pratica coreografica.
Mi pare che dal tuo lavoro traspaia chiaramente l’azione del ritmo come strumento che crea la relazione fra territorio, confini e corpi.
Sì, è così. Il ritmo pone inoltre anche il problema dell’esistenza, nella coesistenza di più paesaggi del corpo all’interno dello stesso spettacolo. In questo spettacolo, per questo motivo di accettare la coesistenza e l’imprevisto, rinuncio alla regia dall’alto. Una piccola parte di me soffre terribilmente a lasciare il controllo, ma allo stesso tempo aver accettato questa condizione e poi averla posta in opera nel corpo ha delle ripercussioni sulla qualità del tempo che il performer occupa scenicamente.
Infatti, se il tempo che creiamo è perturbabile, solo così diventa un tempo “reale”, non assoggettabile a un’estetica della visione ma caso mai sottoposto ad una ritmica comune. E quel tempo reale, che è un tempo perturbato, è il tempo della meteorologia, è il montone in agguato.Allora da li abbiamo costruito una dimensione anche atmosferica del lavoro, in cui si pone il problema della rarefazione del corpo nell’attraversamento dell’atmosfera. Qui suono e luci sono grandi masse volumetriche che si spostano.
In riferimento all’idea di movimento coreografico come spostamento di grandi masse volumetriche e alla dimensione atmosferica dei corpi: cosa intendi per coreografia?
Innanzitutto per me la coreografia è una condizione di apprendimento del corpo, quindi soggetta realmente al fraintendimento costante. La generazione ritmica è soggetta all’incidente, all’incidenza di altre cose, queste altre cose interferiscono sullo stesso piano sul quale agisce il corpo. Sento di fare un lavoro in cui non è il corpo ad essere centrale, bensì la pressione atmosferica. È una questione di temperature ambientali, ormai lavoriamo anche in termini di dissolvimento del confine fisico del corpo.
Per questo spettacolo ad esempio abbiamo usato spesso la metafora del “corpo allagato dentro una foresta pluviale”, dove alla perdita di disegno della partitura corporea corrisponde anche una perdita di disegno dell’oggetto coreografia. In questa condizione è tutto rivoltato verso la questione del tempo, inteso sia in senso cronometrico che in senso meteorologico. Per me il tempo e il ritmo sono tutto, perché tengono in vita i problemi, li fanno emergere. Per esempio l’apparire delle immagini del cacciatore o del colonialista hanno senso per me solo in una cronometria e non in una tensione di discorso. Non mi interessa avere una tesi e affermarla, no, qui è tutto a valanga. Proposto per essere anche dimenticato.
Come lavori con chi crea il suono e le luci?
Con Lorenzo Bianchii, il musicista, abbiamo lavorato in questo modo: sono andato a trovarlo a Parigi, dove vive e lavora, abbiamo passeggiato e camminando abbiamo parlato molto. Io poi invado tutti di testi. Parliamo, leggiamo, discutiamo anche di cose che non c’entrano nulla con l’oggetto concettuale dello spettacolo. Ci incontriamo nella distanza, e l’oggetto di interesse è li alla stessa distanza da tutti e nessuno sa cos’è quell’oggetto, ma sappiamo cosa ci sta attorno.
Questa distanza dall’oggetto di interesse si riscontra anche nella direzione degli sguardi dei performer, sempre rivolti altrove rispetto al centro dell’azione…
Sì, certo. C’è anche una questione legata al modo di stare del corpo, un certo tipo di postura che prevede e accetta l’incidente, il malinteso, cambia anche la dimensione dello sguardo. Abbracciare il periferico, intervenire sulla periferia piuttosto che sull’oggetto: questo è il mio modo di lavorare. Se da uno spettacolo emergesse esplicitamente qualcosa che io ho già immaginato e pensato sarei già morto.
Cosa ci dici del tuo progetto solista che ti vede protagonista di performance altrui nelle forma parassita passaggi fugaci?
Dopo un primo esperimento romano, il progetto ha preso corpo a Birmingham Festival, dove costituiva una parte centrale del festival. In Grand Tour affronto la questione del “bordo”, di come l’intelligenza formale relativa ai limiti, alle cose che circondano la potenza scenica, possa essere gestita oggi. È vero che molti oggetti emergono nella loro efficacia perché sono blindati, però è vero anche, oggi più che mai, che molti oggetti assumono una potenza diversa e più interessante perché sono bucati ai bordi ed è quindi è facile attraversarli.
Come interagisce il tuo lavoro con quello degli artisti che ospitano la tua performance “parassita”?
Si tratta di un vero e proprio negoziato, che può essere sotto forma scritta (quindi un negoziato diplomatico) o una richiesta che passa attraverso un contatto umano diretto. È vero anche che la scelta che gli artisti fanno di relazione con il mio intervento, credo riveli moltissimo del loro lavoro, questa relazione rappresenta quindi in un certo senso un atto di svelamento che loro fanno anche nei confronti del pubblico. Sono passato in mezzo a ogni genere di spettacolo, dal video frame all’avanspettacolo, ho sempre una grande fiducia che l’artista sia un personaggio avventuroso ma a volte mi trovo di fronte a resistenze dettate dalla paura. Penso che non sia più tempo di avere questa cautela, penso ci sia un’esigenza di frantumazione.
Poi in questo lavoro ho trovato molti piani di interesse. Mi interessa il livello di percezione che ho, quasi acustica, della tensione della performance altrui. Io lì dietro le quinte imparo a indovinare lo spettacolo e le reazioni degli spettatori dai rumori, e mi rendo conto di come alcuni spettacoli abbiano una ritmica assolutamente regolare anche quando in scena avvengono cose diverse. Da questo esce emerge il senso dell’artigianato del teatro. Le esperienze sono tutte molto diverse, ma ciò che le accomuna è il senso di solitudine. Io li dietro lo sento forte e sento anche che dall’altra parte c’è un’altra persona altrettanto sola, e questa cosa, anche se inafferrabile, mi incuriosisce molto.
E cosa farai di Grand Tour e del materiale video/foto/carteggi/esperienze raccolte?
Vorrei costruire un documentario con i frame video, e poi raccogliere alcune delle risposte degli artisti alle mie richieste di passare nei loro spettacoli, che sono molto interessanti aggiungere dei testi miei, e poi magari chiederò anche dei contributi. Dobbiamo trovare un editore e i soldi, e poi è fatta!
Chiara Pirri
www.mkonline.it
www.centralefies.it/festival.html
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