Documenta. Una mostra da (ri)leggere
Se a pochi giorni dalla chiusura risulta impossibile fare delle previsioni sul peso che avrà nel futuro, dOCUMENTA (13) testimonia come l’approccio dei curatori preveda un rapporto fortissimo dello spettatore con la lettura. E, a posteriori, il visitatore pare trasformarsi in uno spettatore-lettore.
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La storia di Documenta fa di questa rassegna un unicum nel panorama espositivo. Se la prima edizione nasceva dalla necessità di testimoniare una Germania differente – e che ripensava a se stessa e alle avanguardia artistiche dei decenni precedenti, alle macerie del nazismo – progressivamente la mostra si è istituzionalizzata nel ruolo di essere un meditato compendium sullo stato dell’arte, sulle ragioni culturali, antropologiche ed economiche che l’hanno prodotta. Documenta si è cioè via via sempre più caratterizzata per essere una mostra in cui il lavoro intellettuale del direttore e dei curatori comincia temporalmente prima di quello degli artisti.
Semplificando possiamo dire che il processo di ricognizione intellettuale dei curatori è sostanzialmente ex ante rispetto il lavoro degli artisti e le opere hanno frequentemente il ruolo di essere elementi a suffragio di una visione del mondo. l lavori degli artisti sono cioè elementi che testimoniano o documentano ciò che un curatore ha immaginato come un vero e proprio teorema. Tale approccio si applica anche nei casi, molto frequenti nell’ultima Documenta, di riscoperta critica di autori non mainstream, per lo più poco noti allo stesso pubblico di addetti ai lavori: è il pensiero critico del curatore che ricolloca nel campo attuale il lavoro di quel determinato artista, successivamente all’elaborazione di una teoria – anche autocritica – in grado di spiegarne la rilevanza (si pensi ad esempio il caso di Gustav Metzger, che dalla riscoperta alla Serpentine e alla Civica di Trento è diventato uno degli autori centrali di Documenta).
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dOCUMENTA (13) – Fridericianum
La fase espositiva è quindi preceduta da un lavoro enorme svolto sulle idee, ossia sui testi (di filosofia, sociologia, antropologia, economia e arte) che le registrano, propongono e diffondono. Ciò è largamente testimoniato dall’enorme e rilevante produzione editoriale/convegnistica negli anni che precedono la mostra. Il direttore di Documenta agisce, in buona sostanza, come un vero e proprio responsabile di un dipartimento di ricerca universitario, al punto che – per dirlo con una boutade – che ciò che scrive egli stesso e i membri del proprio team è talvolta più importante di ciò che lo spettatore vede nelle mostre.
Lo spettatore di Documenta, infatti, trova molto spesso opere che testimoniano visivamente un processo intellettuale avvenuto in precedenza. Estremizzando, si potrebbe dire che l’opera funziona da display, da dispositivo che produce una testimonianza dei fenomeni di rilievo che sono stati individuati precedentemente. Molte delle opere di dOCUMENTA (13) infatti (si pensi ad esempio alle opere politiche che nascono da riflessioni critiche sul colonialismo e sul neocolonialismo) funzionano se si conosce prima la storia, se si ha letto il testo che ne racconta la genesi o gli elementi di riflessione e criticità.
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dOCUMENTA (13) – Fridericianum
Si può obiettare che la comprensione di qualsiasi opera è maggiore al nostro grado di consapevolezza, anche testuale, ma mai come nella mostra di Kassel il criterio espositivo adottato – in certi aspetti ideologico – prevede che lo spettatore legga il testo prima di esperire l’opera. Il visitatore cioè si è trasformato in un spettatore leggente, prima che vedente, e il testo scritto ha una funzione propedeutica ineludibile.
I visitatori che sono stati a Documenta (specialmente nelle ultime edizioni) testimoniano una grande rincorsa del pubblico alle etichette, alle didascalie che aprono le porte dell’opera, quando non proprio a una visita accompagnata dal catalogo, che è diventato il compagno imprescindibile di tanti visitatori, benché numerose foto di archivio di Documenta testimoniano come già negli Anni Sessanta il pubblico ricorresse con una certa frequenza al begleitbuch durante la visione della mostra.
L’approccio a cui è invitato lo spettatore è quindi di essere homo legens prima di esercitare le prerogative di homo videns, con una dinamica di attenzione al testo che trae probabilmente origine dal rigore culturale e morale della Riforma protestante, rigorosamente basata nella parola scritta (si pensi, al contrario, quanto la Controriforma cattolica abbia costruito il rapporto uomo-religione attraverso le immagini). Se in un mondo traboccante di immagini risulta così anche confortante attivare dei processi mentali prima di vedere/esperire un’opera, alla lunga però la priorità del testo sull’opera risulta frustrante, perché il visitatore spende di più il proprio tempo per leggere storie, informazioni o teoremi che non per vedere/esperire qualcosa che abbia attinenza alle arti visive.
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dOCUMENTA (13) – Hauptbahnhof
dOCUMENTA (13) finisce così per essere in molte – troppe? – situazioni più un’avventura da lettore attento e metodico che un’esperienza visiva forte e trascendentale. E oltre a qualche opera (Ryan Gander, Lara Favaretto, Tino Sehgal ecc.), oltre ai saggi dei cataloghi, tra un decennio ci ricorderemo forse di essere stati in fila anche per leggere qualche etichetta.
Daniele Capra
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