Electric Campfire. Tristano e la saga dei figli
Roma, Villa Massimo, Electric Campfire 2012. Una sola notte dai contenuti preziosi e dai significati molteplici che chiedono di essere sciolti. Una breve speculazione a freddo attorno al primato dell’elettronica tedesca, al decorso della cultura soft e house.
Zang Tumb Tumb. Pulsa elettro una notte di Roma. Electric Campfire segna per la quinta volta un picco nell’anno musicale capitolino. Il sette settembre Alva Noto, byetone, Robert Lippok, Anne-James Chaton, senking, kandingray, Grischa Lichtenberger ed emptyset hanno agitato le anime del parco e gli aghi elettrizzati dei pini di Villa Massimo. Qui ha sede l’Accademia tedesca che, assieme alle sorelle, riconferma un ruolo essenziale di reale funzione pubblica in una città in cui il pubblico “bene” è sempre meno garantito. Gemme tempestano una corona rovesciata.
Questa la sequenza ordinata degli elementi in campo il sette settembre: Roma, un’accademia, nove dj, le dinamiche di un opening e tutte le presenze di un concerto. Lingue diverse e attori distanti dialogano sul campo dell’imperativo miscellaneo: si aprono le porte, si sciolgono i confini tra ricerca e intrattenimento, tra evento e party, tra audio e video, tra Roma e Berlino. E si sciolgono anche i corpi ritrovati silhouette nella penombra, tra i lampi di luce sintetica. Andiamo più a fondo.
Un veterano motto di spirito che recita che in Paradiso i vigili sarebbero inglesi, i cuochi francesi, gli amanti italiani e i meccanici tedeschi. Bene, se il paradiso rimanesse intrappolato nel 2012, questi meccanici, questi ingegneri renani potrebbero di certo avere la delega ai dj-set. Alva Noto &Co. (a inclusione di Apparat, Moderat fino ad Ellen Allien) ricalcano infatti la parabola ascendente di tanta cultura tedesca in clima contemporaneo/postmoderno. I precedenti eccellenti d’altronde non mancano; parlare oggi di Kraftwerk e Einstürzende Neubauten come vette di una raffinata scena elettrica, industrial e post-human si risolverebbe in un ovvio annuire di capi, così come affermare Giotto e Cavallini matrici del lessico pittorico italiano o Le Corbusier di quello razionalista.
La strada che si inerpica sui tornanti del riflusso culturale è segnata e la generazione di dj tedeschi che, da quindici anni a questa parte, producono tra le cose migliori nel panorama musicale elettronico procede composta, in fila indiana. Il passo è quindi progressivo, nessuno sguardo al passato, testa ritta a fiutare i venti della tecnica, le tracce dei software e gli umori dell’arte contemporanea. Il mento alto e lo sguardo fiero sono testimoni di un profilo familiare, di una presenza assidua e incalzante; si profila nell’ombra la sagoma dell’Avanguardia. In questo senso, Alva Noto è nell’avanguardia, in quel campo d’azione dalle lontane eco militari che ci riportano, in un battito d’ali, al fumo dei bar d’un secolo fa, alle strade animate da tram in bianco e nero, alle audaci virate, alle allegre scazzottate futuriste. Così scrive Russolo l’11 marzo 1913 in una lettera a Pratella: “Siamo certi dunque che scegliendo, coordinando e dominando tutti rumori, noi arricchiremo gli uomini di una nuova voluttà insospettata. Benché la caratteristica del rumore sia di richiama brutalmente alla vita, l’arte dei rumori non deve limitarsi ad una riproduzione imitativa. Essa attingerà la sua maggiore facoltà di emozione nel godimento acustico in se stesso, che l’ispirazione dell’artista saprà trarre dai rumori combinati”.
È già tutto qui, negli occhi inquieti del maestro che cerca di carpire un presente che ha smesso di passeggiare per adeguarsi al passo delle turbine delle centrali elettriche. Il resto è storia e l’onestà di Alva Noto è nella coerenza col verbo. Per uscire dalla modernità e approdare alla postmodernità era necessario abbandonare dapprima i metalli, i rombi e gli sbuffi di Russolo, poi i pianoforte pur in fiamme di Annea Lockwood o quelli preparati di John Cage e infine le manopole delle drum machine Korg.
Prima di tornare all’attuale, però, questa storia deve passare dai garage della California dove gli Steve Jobs e Wozniak segnavano definitivamente l’approssimarsi di un accesso democratico – personal – al post-umano. Ecco che, da allora, schiere compatte di dj possono perdersi nell’infinito immateriale del software, chini sui monitor, immobili nell’afa delle loro stanze da letto.
In qualche modo, uscendo dal testo e dal circuito piccolo dei generi musicali, tutta la cultura pop degli ultimi vent’anni è house; compresi gli Interrail prenotati online, i voli low cost, Wikipedia, Cubase e Photoshop. Alva Noto & Co. rappresentano di certo l’eccellenza di questa stagione soft, il loro è artigianato di alta qualità che produce – sotto l’incanto dell’ispirazione – risultati d’eccellenza. E nel dettaglio, l’elettronica che si sprigiona potente dal sound system di Villa Massimo non solo si avvale della stringente aderenza a questa contemporaneità culturale, ma risulta tangente alle grazie dell’arte attraverso l’handicap della sua impossibile riproducibilità. La parola non può trattenere la miriade di significanti che si producono nell’infinita timbrica del digitale – suoni dell’altrove – nel rapimento di frequenze inaudite che rimangono di per sé intestimoniabili, vive solo nella logica dell’atto delegato. E il tutto rimbomba di happening.
Ecco, questa musica elettronica della cronaca se ne frega, e di conseguenza della storia. Ecco dunque che la sequenza degli elementi in campo il sette settembre – Roma, un’accademia, nove dj, le dinamiche di un opening e tutte le presenze di un concerto – ritrova una logica nuova. Perché Roma non è più Roma, perché i dj si fanno maestri di cerimonia di un’altra Logica della Sensazione, perché la materia grezza del dato culturale giunge a veicolare un’artisticità autentica e, infine, perché l’Accademia sconfessa l’accademico per diventare vero teatro di ricerca.
Luca Labanca
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