“Ultimo anno in giro per certi festival!”. Queste parole come frutto di un lungo pensiero, guidando nel silenzio, i compagni di viaggio incantati dal paesaggio intorno, l’oro di alcuni campi alternato al verde cupo di zone più selvagge, boschive, a tratti alberi isolati, file di cipressi lungo l’orlo delle colline. E certo quella decisione improvvisa, quasi un’esplosione interiore, frutto evidentemente di vaste riflessioni, non nasceva dai recenti appuntamenti nella bella Toscana, spettacoli, incontri tutti di valore, con Kilowatt a Sansepolcro (la città di Piero della Francesca!) il Teatro Povero di Monticchiello/ Pienza, la Compagnia della Fortezza a Volterra, e poi Radicondoli con Stefano Randisi & Enzo Vetrano nell’area antistante la Pieve Vecchia della Madonna…
No, i pensieri di M. nascevano da altri territori del pensiero, diverse esperienze. I compagni di viaggio – tutti critici teatrali – non potevano non chiedere chiarimenti, precisazioni. Perché nelle settimane precedenti i percorsi erano stati altri, festival distanti, in diverse regioni, per lo più con una raccolta di minieventi, studi, teatro-danza, molte piccole creazioni ai confini con le arti figurative.
M., con qualche insofferenza, precisa il suo pensiero: “Perché vedere inutili assaggi di qualcosa che tanto è destinato a morire lì? Impossibile l’ospitalità in rassegne, in stagioni cittadine, frammenti disordinati segnati dalla presunzione… lavori autoreferenziali…”. R. conferma subito, si dichiara d’accordo, facendo nuovi esempi rispetto a M.
Segue un tempo di silenzio. Il paesaggio sempre magnifico. Pensieri sparsi, ciascuno ripercorrendo le proprie esperienze, ma con la mente proiettata anche al rientro, un saluto a quei luoghi. Lì il prossimo anno sarebbero tornati tutti, sempre imperdibili Volterra o Monticchiello.
G. e D. cominciano a parlare quasi insieme, G. più ironico, divertito all’idea del confronto/scontro che, era chiaro, sarebbe cresciuto nei toni, D. più razionale, con la volontà di arrivare a conclusioni logiche. Intanto bisognava distinguere tra diversi modelli di festival, quelli che sono ormai delle vere e proprie stagioni estive, con spettacoli compiuti, rassegne sempre più diffuse un po’ ovunque, vuoi nelle città che ormai non si spopolano più, pochi i soldi per le vacanze, vuoi in località di villeggiatura, “valore aggiunto” alle attività ricreative di mare e monti, e i festival che invece raccolgono in forma densa, ravvicinata, più eventi, in spazi/tempi diversi, intrecci di linguaggi, intensi dialoghi con le arti figurative… Lì dove, certo, si raccolgono le stesse persone, “le solite facce” come aveva ricordato un po’ infastidito R., simili a sciami che si spostano da un luogo all’altro.
R. d’accordo ancora con M.: difficile anche recensire questi festival in alcuni quotidiani. “Cosa scrivi?”, rincara M., “Di qualcosa che già non c’è più? Con quale competenza poi? Non è più neppure teatro… Tu devi raccontare di qualcosa che i lettori potrebbero incontrare, andare a vedere…”.
In verità tra i due estremi ci sono infinite varianti, molti cartelloni misti, distribuiti anche su più località, dove la ricerca riesce a coniugarsi anche con il “popolare”, specie dove qualche direttore artistico ha saputo far crescere, di sensibilità artistica e di numero, il proprio pubblico. Tutti e quattro gli abitanti di quella macchina sapevano. Ma ormai avevano voglia di radicalizzare la discussione.
D. alleggerisce l’atmosfera. “Andremo, andremo, e ancora insieme…”, dice ridendo. “Come fai a sapere diversamente quali sono le nuove visioni, le tensioni estetiche della contemporaneità? Pensa all’alta moda un tempo, quando gli stilisti creavano abiti difficilmente indossabili, quasi sculture a sé, ma che pure erano segnali per il prêt-à-porter… Il paragone non è perfetto, tuttavia…”. Il dialogo era ormai chiaramente puro gioco dialettico, nessuno di loro avrebbe dichiarato i propri torti, ma gli input arrivavano chiari. In quella macchina non c’erano motivi d’acrimonia, d’invidie, ciascuno in diverso modo la vita piena.
Ogni tanto qualche nuovo motivo di riflessione. “Ma quest’anno davvero in questi festival della sperimentazione nulla di nuovo, di speciale…”. Nessuno risponde, non ce n’è bisogno. È chiaro che alcuni anni sono peggio di altri. “Pensa per quanto tempo si è avvertito un lungo vuoto d’attesa dopo il diffondersi, e l’esaurirsi, del terzo teatro”: così G., che aveva parlato meno di tutti. Questo in particolare aveva stancato M., e non solo lui: l’assenza di nuove intuizioni, di vere sorprese. Un pensiero silenzioso, che pure qualcuno capta al volo: “Ma pensa in compenso a quante poetiche differenti negli altri festival, e lavori di pregio, a Kilowatt/Sansepolcro in un’unica sera tre spettacoli davvero notevoli e del tutto diversi…”. Vero, tutti d’accordo su quel punto. “E ai tuoi lettori puoi raccontare proprio questo: che in tempi difficili le compagnie forse si concentrano di più su una creatività immediatamente fruibile dal pubblico”.
È anche questo uno dei compiti intellettuali del critico? Riconoscere, con le metamorfosi estetiche, gli aspetti “sociologici” della creatività, percepirne i segnali, renderli visibili?
Valeria Ottolenghi
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