La fabbrica dell’arte: cultura e industria nell’Italia deindustrializzata
La fabbrica è scomparsa dall’immaginario collettivo? Sì e no. In realtà, la sua figura aleggia nel comparto culturale, che pullula di “industrie” e “laboratori” e “officine”. Una cultura piena di sensi di colpa, che deve sempre dimostrare la propria produttività.
Di fronte alla scomparsa della fabbrica nell’immaginario collettivo e all’effettivo arretramento del comparto industriale, la cultura italiana ha reagito in maniera diversificata. Si è innanzitutto risvegliato, quasi come una reazione al declino, un notevole interesse per la stagione più dinamica del capitalismo nostrano e gli anni in cui furono più stretti e proficui i rapporti tra intellettuali e grande capitale: riedizioni, articoli sui giornali, incontri testimoniano della grande attenzione per la letteratura industriale degli anni Sessanta (Volponi, Ottieri, Parise) e per figure cardine, a cominciare da quella di Adriano Olivetti. A riaccendere l’interesse ha contribuito la fioritura di una nuova letteratura sul lavoro, che a sua volta ha tratto ispirazione dai capisaldi di quella stagione; protagonisti ne sono, nella gran parte dei casi, non più gli operai, ma – conformemente alla drammatica evoluzione del mercato del lavoro – i precari, dagli operatori dei call-center ai supplenti.
Di segno ben diverso è il travaso di termini che designano luoghi di lavoro manuale in ambito culturale, artistico, ricreativo, spesso (ma non sempre) giustificato dal reimpiego di strutture produttive. Il fenomeno riguarda spazi espositivi e centri d’arte (dalla Fabbrica del Vapore alla bolognese Manifattura delle Arti, a Fabbrica Arte Rimini), festival (Fabbrica Europa), locali con venature artistiche, solitamente covi di radical-chic (le tante Officine, con o senza ulteriori specificazioni). Il risultato dell’operazione (che trova il suo antecedente nella Factory warholiana) è duplice: da un lato tali denominazioni servono a identificare musei ed eventi come luoghi e momenti di produzione di “qualcosa”, con una loro responsabilità sociale, legittimandoli agli occhi della pubblica opinione, che potrebbe incorrere nel grossolano errore di ritenerli enti inutili, teatri dell’autorappresentazione di una comunità chiusa; dall’altro la fabbrica perde, nell’immaginario comune, lo statuto di luogo di sudore e sangue, per divenire quasi un locus amoenus, pimpante e, incredibile a dirsi, creativo.
È tuttavia un altro, nel dibattito pubblico, il principale fenomeno che lega, nel segno di un’improbabile sostituzione, i destini dell’arte e della cultura, da una parte, e dell’industria, dall’altra. L’apparato produttivo del Paese è alla frutta. Negli ultimi decenni è stato depauperato – a causa di scelte dissennate della classe dirigente, politica ed economica – un patrimonio enorme di conoscenze e competenze, settori vitali e all’avanguardia (l’esempio classico è quello dell’informatica) sono stati fatti colare a picco. Il Paese è così giunto all’“ora fatale”, al duello con la famigerata crisi con le armi spuntate, senza uno straccio di idea e soprattutto privo di un piano di rilancio industriale basato sull’innovazione. Ed ecco che nella testa di molti si è accesa una lampadina: facciamo dell’arte e della cultura un settore fondamentale della nostra economia, anzi il pilastro della nostra struttura economica. L’arte prima industria della nazione, o meglio al posto dell’industria. E nemmeno intesa, si badi bene, come produzione artistica contemporanea (cinema, teatro, arti visive e performative, etc), cosa che potrebbe anche avere un senso (benché difficilmente ci si tenga in piedi un Paese). Il riferimento è prima di tutto al patrimonio storico-artistico che così capillarmente punteggia la Penisola. Le grandi “fabbriche” degli Antichi e del Rinascimento, nel senso architettonico che il termine aveva in passato, al posto delle fabbriche dell’era industriale.
E allora giù con i manifesti sulla “cultura che fattura”. Giù con i discorsi da imbonitori che devono piazzare un prodotto, sull’Italia che vanta “il più grande patrimonio culturale del mondo” e che possiede il cinquanta, l’ottanta, il centoventi per cento dei beni storico-artistici del pianeta. Chiacchiere da bar che incredibilmente sono state fatte proprie da intellettuali e élites: “Ti rendi conto che il patrimonio artistico della sola Firenze vale quanto quello di tutta la Spagna?” (Armando Torno, cit. da Roberto Napoletano, “Il Sole24Ore”, 5 febbraio 2012). Discorsi che purtroppo fioccano soprattutto a sinistra: per ribattere al tremontiano “la cultura non si mangia”, si ripete il mantra secondo cui con la cultura ci si strafoga, senza la minima riflessione su cosa sia la “cultura”, senza chiedersi quanto, di quello che viene oggi spacciato per “culturale”, sia effettivamente tale (pensiamo ad un settore tra i più redditizi, le mostre: quante producono realmente cultura?). Insomma, un ossessivo discorso intorno alla cultura che è il meno culturale possibile; e non stupisce, in un Paese nel cui governo tecnico l’unico ministro non tecnico è proprio il fantasmatico Ministro della Cultura.
Ora, siamo tutti contenti se con la tutela e la promozione delle nostre bellezze si riescono anche a creare posti di lavoro e si produce indotto, se nel settore si evitano gli sprechi. Ma il pensiero unico afferma ben altro, propinando una ricetta (peraltro illusoria) che, facendo della cultura unicamente una voce dell’economia, ne contraddice il carattere più profondo, che è quello di essere un’altra cosa rispetto al denaro e al mercato e al soddisfacimento dei bisogni materiali. Una ricetta che, inoltre, non fa bene al Paese: davvero vogliamo ridurci a parco giochi d’Europa e del mondo?
Inseguendo la chimera della valorizzazione come panacea di tutti i mali, l’Italia rinnega ancora una volta se stessa e la sua storia. Per quanto la Penisola sia sempre stata attraversata da orde di pellegrini, per quante anticaglie e patacche possiamo aver rifilato ai rampolli impegnati nel Grand Tour, nessuno si è mai sognato di far campare l’Italia sulle sue bellezze. Dietro Giotto, Michelangelo e Bernini ci sono sempre stati (ora più ora meno, e con differenze marcate da città a città) un tessuto produttivo vivo e commerci fiorenti. La cultura contribuisca al progresso più che allo sviluppo, educando, facendoci vivere meglio e in maniera più piena, alimentando la creazione di altra cultura. L’Italia la smetta di adagiarsi sugli allori del passato e valorizzi, più che chiese e castelli, il suo spirito industre.
Fabrizio Federici
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