Bisognava cambiare tutto affinché nulla cambiasse. La nuova gestione della Viennafair, alla prima prova dopo l’acquisizione e gestione da parte di una società russa, ha dimostrato che la politica di apertura verso l’Europa dell’est del mercato dell’arte, caratteristica che la fiera ha assunto fin quasi dalle origini, era un’intuizione formidabile. E valida era anche l’impostazione strutturale basata sulla suddivisione in due soli settori, quello ampio e generale, e quello speciale, la Zona 1, come abbiamo spiegato altrove.
Ora però, sempre l’attuale gestione russa, ha dimostrato che la Ost-Politik dell’arte va fatta con coerenza. Detto altrimenti: la nuova Viennafair è la prosecuzione di quella vecchia con altri mezzi. Mezzi più efficaci, più convinti, più persuasivi, più penetranti. Ma soprattutto, ha mostrato che per crederci veramente, bisogna veramente crederci. Cioè, scommetterci sopra con validi investimenti umani e finanziari.
Molte mosse giuste sul piano strategico, come un ulteriore allargamento a est e sud est dell’Europa e un po’ oltre, sfidando pregiudizi; come strategie tese a procurare agevolazioni finanziarie tramite il sostegno di sponsor importanti, al fine di rendere accessibili i costi di partecipazione di molte gallerie dell’est. Nonché una comunicazione mirata verso collezionisti e pubblico dell’arte, stimolando in tutti, a ovest come a est, l’interesse a percorrere i corridoi di una fiera in un luogo geografico suggestivo, recuperandone il un ruolo storico di cerniera culturale tra due versanti, vieppiù fortemente segnati nel secolo scorso dalla guerra fredda. Quindi, non solo attrarre il “solito” pubblico, ma portarne del nuovo proveniente da economie emergenti. Vivacizzare, sul piano dell’espressione dei linguaggi creativi, il confronto tra differenze culturali che la storia stessa ha implicitamente plasmato. Ammesso poi, che di nette differenze culturali si possa ancora parlare dopo vent’anni di globalizzazione.
Per quello che si è visto durante l’edizione 2012 della Viennafair, dobbiamo ammettere che le differenze si danno ormai solo sul piano della sensibilità individuale degli artisti, fosse anche una sensibilità talvolta influenzata da retaggi storici. E poiché, tuttavia, il common ground delle intersezioni estetiche contemporanee è un dato tutt’altro che scoraggiante, tanto basta, o basterebbe, a incoraggiare il pubblico dell’arte ad esserci, sia esso un collezionista, un militante, un professionista della comunicazione, un cultore aggiornato della materia. Il gioco è riuscito?
Già, è questo il punto. Sul piano pratico qualcosa è pur sempre sfuggita di mano agli organizzatori. L’attenzione posta agli importantissimi “clienti” di casa, come certe influenti gallerie, dalla Ropac alla Krinzinger; o ai “clienti” dell’est, in primo luogo le gallerie moscovite, o quelle ospiti sovvenzionate da grossi sponsor, ha finito per creare dei disappunti in altri clienti, per giunta abituali, come le numerose gallerie tedesche. Un qualche malcontento di sorta, contenuto con garbo, ci è stato confidato anche da alcune delle quattro italiane (Glance di Torino, Oredaria e Wunderkammern di Roma, P420 di Bologna), che nel tourbillon fieristico non sfiguravano, anche se un po’ di brio in più nell’allestimento degli stand le avrebbe rese maggiormente appetibili allo sguardo del pubblico. Quattro gallerie che hanno coraggiosamente sfidato un terreno solitamente ostico, viste le esperienze generalmente in negativo delle italiane che negli anni scorsi si sono affacciate quassù.
Una nota riguardo al pubblico del Belpaese: in che misura è intervenuto, anche solo a titolo di curiosità? In effetti, siamo o non siamo un popolo di poeti e di artisti, santi e navigatori eccetera, sì o no? Bene. E Vienna è, o no, la meta preferita dagli italiani, nei fine settimana di ogni stagione? Al punto che è impossibile, nelle strade del centro, non imbattersi in gruppetti di italiani ogni sei passi, o anche meno? Ecco, se allo scoccare dell’ultimo minuto della fiera, chiedevi – come in realtà Artribune ha chiesto a viso aperto – ai galleristi italiani quanti connazionali avessero visitato i loro stand, non avevano bene a mente se si trattasse di una o due persone, non tre! E di giornalisti italiani, almeno di quelli che si sono palesati? Ancora meno… eccetto noi, inutile dirlo. Seppure è nostro dovere restare imparziali, è impossibile non chiederci come può, un sostrato di disinteresse così evidente di pubblico e media, rendere orgogliosi i galleristi italiani di certe loro trasferte estere, faticose e costose, quindi dovendo spesso rinunciarvi, proprio là dove l’industria dell’arte conquista territori.
Franco Veremondi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati