L’idea del realismo: ghost track
Si chiude questa domenica, all’interno della rubrica Inpratica, la lunga riflessione a puntate sul nuovo realismo. A fare il punto finale - per ora - è la vicenda di Alfredino. Trattata in maniera opposta da Giuseppe Genna e Walter Veltroni. Per due filosofie della storia che più diverse non potrebbero essere.
Il Paese delle interpretazioni è abitato
da un popolo che non sa interpretare.
Giuseppe Genna, Dies Irae (2006)
Alcuni autori dei romanzi più interessanti pubblicati in Italia negli ultimi anni “esorbitano” regolarmente dall’intreccio principale, cercando e rintracciando attraverso la scrittura le radici di un orizzonte occidentale. È il caso dell’Hitler (2008) di Giuseppe Genna, una sorta di iper-romanzo, e delle continue digressioni storiche ne Le rondini di Montecassino (2010) di Helena Janeczek, che costituiscono l’ossatura stessa del libro: storie individuali e collettive, provenienti dall’intero pianeta, collidono in un punto preciso dello spazio, e in più punti temporali.
L’idea fondamentale è quella di un romanzo storico di nuovo tipo, che sia in grado di raggiungere la realtà attraverso la fiction (e aggirando la finzione): “La trasformazione in corso, per quanto concerne la letteratura, può incarnarsi in un certo tipo di romanzo, nuovo e strano, che rappresenta e supera quella che sociologicamente è detta “realtà” (“crisi” compresa). E’ un romanzo difficile […] Comprenderemo la forma della nuova veste del genere romanzesco (un genere che ha cambiato continuamente forme dal Seicento a oggi) quando capiremo se in Italia esistono ancora o meno “doveri linguistici” e se ci saranno scrittori che avvertiranno l’esigenza di adempiere a questi compiti, che oggi non sono certo di massa e peraltro vengono ignorati da seriali tv tanto quanto dal “pubblico” delle classifiche o dagli adepti delle nuove piattaforme” (Giuseppe Genna, Il romanzo oltre la Storia, “La Lettura-Corriere della Sera”, 22 gennaio 2012).
Si tratta dunque di romanzi “difficili” e sono tali proprio perché illuminano una zona dell’immaginario collettivo che è normalmente inaccessibile, illeggibile, inconoscibile, proprio perché rimossa. Qual è il tentativo fondamentale, in molti casi riuscito? Sfondare il muro della finzione con i mezzi della finzione, attingere e trasmettere il nucleo oscuro – indicibile – della realtà italiana (e occidentale), della storia e del presente in quanto storia, individuale e collettiva: “Allora ero completamente infelice. Nella mia vita avevo sbagliato tutto, fallito tutto. Ero solo. Lo avevo capito di colpo, in una notte di forte pioggia in cui non riuscivo a dormire, e ne ero rimasto annientato. Non c’era libertà intorno a me, non c’era amore. Solo aridità, asservimento, vuoto, vita che sembrava morte. Il paese dove vivevo era fottuto, tutto il mondo era fottuto. C’erano solo delle strutture che lottavano le une contro le altre per succhiare ciò che restava del midollo del mondo. Tutta la vita era sotto la cappa della morte” (Antonio Moresco, Gli incendiati).
Per cogliere appieno la differenza sostanziale tra le narrazioni che parlano dalla zona oscura dell’Italia e quelle provenienti dall’area della finzione e dell’autoassoluzione è sufficiente confrontare Dies Irae (2006) di Giuseppe Genna con L’inizio del buio (2011) di Walter Veltroni. L’idea è quasi la stessa: costruire una storia sotterranea dell’Italia dagli Anni Ottanta a oggi, ricostruire il punto di origine in cui viviamo, usando la vicenda di Vermicino (10-13 giugno 1981) come metafora. La procedura di avvicinamento a essa adottato dai due romanzi, invece, non potrebbe risultare più diverso. In Dies Irae, la storia di Alfredino è la trama apocalittica di un’Italia sconosciuta, che si sovrappone fantasmaticamente a quella costruita dalla percezione di massa: “Stracolmo di io è l’anfiteatro dove ogni io è venuto per vedere, l’io a contatto con quanto accade e senza mediazioni, senza filtri e ostacoli, senza il diaframma dello schermo a colori o in bianco e nero, nella notte numinosa in cui trapassa l’Italia da una forma all’altra”.
Per Genna, il pozzo di Vermicino è il buco nero che genera un mosaico di visioni e allucinazioni epocali (da decifrare), e che al tempo stesso divora ogni energia ed ogni informazione dell’Italia recente; L’inizio del buio, invece, rimane per così dire esso stesso risucchiato dal pozzo. È una narrazione istituzionale e retorica, che ci tiene a non apparire tale, che continua imperterrita a scambiare la fiction (storica, mediatica, spettacolare) per la verità, e che aderisce perfettamente al racconto ufficiale – “già dato, già noto” – degli eventi (e della loro interconnessione), confermandolo e legittimandolo: “Perché un buco della terra, come il mostro di una favola, lo ha inghiottito. Perché lui ha cominciato a cadere senza più sentire quel vento leggero che prima gli sembrava lo sospingesse. Perché tutto è diventato nero. Nero come quel buio di cui hai paura prima di dormire, quello in cui compaiono i fantasmi più spaventosi. Quel nero in cui ti senti solo, perché sei solo”.
Christian Caliandro
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