Brandy dice: “Ma non capisci? Perché siamo stati
educati a vivere la vita nel modo giusto. A non fare errori”
Chuck Palahniuk, Invisible Monsters (1999)
E adesso, proviamo a capire che cosa succede nel piccolo mondo (non antico) dell’arte contemporanea italiana.
Nell’era della crisi, il processo che sta riguardando l’Italia intera – a ogni livello – è abbastanza chiaro; il ritornello abituale, e abitualmente ascoltato, è: “La torta si restringe, la lotta si fa più crudele”. Il che vuol dire, molto banalmente, che una società iper-conservatrice come la nostra si chiude ancora di più di come faceva prima, in ogni settore; invece di aprirsi e di aprire nuovi spazi, di esplorare e sperimentare nuove opportunità (nuovi segmenti, nuovi mercati, nuove soluzioni).
Per esempio, l’editoria in pochi mesi ha subìto un crollo durissimo, che si attesta attorno al 30%; il turismo quest’estate è calato della stessa percentuale rispetto al 2011. E così via, in ogni comparto produttivo, economico, sociale. Il sistema nazionale dell’arte contemporanea, lo sappiamo, va incontro a una riconfigurazione altrettanto radicale e crudele. Alle debolezze e alle criticità solite, strutturali, se ne aggiungono altre, congiunturali. Senza praticamente che si sia mai vista davvero l’epoca delle vacche grasse, quella delle vacche magrissime è ufficialmente iniziata: e di fatto sembriamo paurosamente impreparati. Il nostro equipaggiamento è inadeguato.
I problemi appartengono a due ordini principali, strettamente interconnessi.
Il primo è di carattere generale, e riguarda la percezione della cultura nel nostro Paese: perché a ogni taglio (sempre più spietato e devastante di quello precedente) imposto ad un singolo settore culturale, non segue di fatto alcuna reazione dell’opinione pubblica? Dell’opinione pubblica, non degli appartenenti a quel settore, degli operatori, degli ‘addetti ai lavori’: è una domanda sgradevole, ma bisogna sul serio cominciare a porsela per capirci qualcosa. La cultura, in Italia, non è purtroppo percepita a livello diffuso come un bene primario e comune, come un servizio di cui non si possa proprio fare a meno. La cultura, anzi, è considerata al contrario appannaggio di pochi: una produzione del tutto autoreferenziale, connessa cioè a cricche-caste-gruppetti, assolutamente non popolare (nel senso vero e profondo del termine), e per questo fondamentalmente scollegata dalla vita di ognuno, dalle proprie esigenze reali, dal mondo in cui le esistenze individuali e collettive si svolgono e si snodano. La produzione culturale nazionale, cioè, tranne sporadiche eccezioni, non ‘racconta’ più nulla di rilevante per la nostra identità, per capire chi siamo e che diavolo ci sta succedendo. Non costruisce mitografie in cui riconoscersi. Eppure, non è sempre stato così: pensiamo solo alla commedia italiana (Monicelli, Risi, Scola), o al cinema politico e d’inchiesta (Rosi, Petri, Damiani) dagli Anni Cinquanta agli Anni Settanta.
Come si può dunque pretendere, con queste premesse, che un popolo intero scenda in piazza a difendere un bene che non sente e che non ha mai sentito come proprio, come una parte importante di se stesso? Ciò è accaduto non per caso, ma perché si è voluto che accadesse, perché si è scelto che accadesse: è sufficiente pensare a quali sono i prodotti culturali di massa che hanno formato le ultime due, tre generazioni di italiani, per capire di cosa stiamo parlando.
Ad autoreferenzialità generali, naturalmente, si sono sommate autoreferenzialità particolari, specifiche: e il mondo dell’arte, in questo senso, è diventato presto un caso-studio da manuale. Guardatevi intorno. Tutti conosciamo, frequentiamo, stimiamo persino individui che vivono in una continua, studiata finzione: mentono a se stessi, prima ancora che agli altri. “Fare il curatore”, “fare l’artista” è diventato infatti il modo per mascherare una condizione di umiliazione che è collettiva, di tutti. E che viene perennemente negata, rimossa. In forme diverse, certamente, e secondo differenti declinazioni, ma con poche variazioni riguardo alla sostanza: “Un’umiliazione che si sostanzia non solo nell’attuale assetto socioeconomico e nel relativo telaio infantilizzante che ne deriva, ma soprattutto in quella paradossale complicità che queste generazioni hanno mostrato nei confronti del telaio medesimo. Si tratta di uno stato d’animo che sembra governare il pensiero e la sensibilità degli ultimi vent’anni, un tempo sufficiente ad averne determinato la normalizzazione e quindi, almeno all’apparenza, la neutralizzazione. L’umiliazione oggi innerva di sé pratiche e immaginario e viene travestita con gli abiti del vittimismo o dell’autoironia: in entrambi i casi l’esperienza del dolore più incandescente viene in qualche modo addomesticata” (Giorgio Vasta, La narrativa dell’umiliazione, “minima & moralia”, 6 dicembre 2011).
Un paio di generazioni sono cresciute (e sono state cresciute) nell’obbligo di fingere di condurre delle vite interessantissime, di svolgere mansioni affascinanti perché così prevedeva il contesto. Così prescrivevano le condizioni date. Bene, adesso si vede che fine ha fatto il contesto; adesso quelle stesse condizioni sono sul punto di disintegrarsi. Gli stessi artisti che hanno coltivato fino a poco tempo fa sogni da star (non tutti, per carità, non ancora: ma una buona parte sì) cominciano a rendersi conto di come sia sempre più difficile ‘campare’ con le proprie opere (e, nella fattispecie, con quelle opere); idem i loro galleristi; i curatori, poi (almeno quelli più giovani, e dunque indifesi) non sanno più bene come fare i curatori, e in che cosa consista la curatela. E tutti continuano a non avere una vita al di fuori del ristretto mondo dell’arte, dunque a non disporre di materiali utili su cui lavorare sul serio e da riportare all’interno di quel mondo – che si consuma in se stesso. Come scrive Gian Maria Tosatti: “Restiamo spesso perplessi di fronte ad opere che si propongono di affrontare la realtà in un orizzonte cronachistico, quasi impersonale, quasi che la ‘ricerca’ sia scindibile dall’‘essenza’”(L’unica verità possibile, 11 luglio 2012).
E, se ci pensiamo bene, questo accade non perché “non ci sono i soldi”, o per il solito destino cinico e baro; ma proprio perché le condizioni stesse erano sballate e sbagliate fin dall’inizio. Perché il contesto, il quadro era installato sulla finzione generalizzata. Infatti, una determinata situazione non è illusoria solo quando non funziona; lo è anche quando va bene, cioè quando molti ne traggono vantaggio. Solo che quei molti, e i moltissimi che sono esclusi ma che sperano di arraffare una fetta, un pezzetto, una briciola della famosa torta, preferiscono dire – e addirittura pensare – che sia reale. Contro ogni evidenza, e il più a lungo possibile.
Non è detto, perciò, che il crollo a cui abbiamo appena cominciato ad assistere sia (solo) una maledizione.
Christian Caliandro
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