Il problema della ricezione (II): Lou Reed & Metallica, Lulu
La domanda iniziale di questa riflessione riguardava la “capacità” di ricezione di un oggetto artistico rivoluzionario da parte del pubblico. Ora guardiamo a un caso esemplare, l’album firmato in coppia da Lou Reed e dai Metallica.
La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole
che non si può più guardare fissamente.
Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno
la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo,
ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé.
Ennio Flaiano, Ombre grigie
(Corriere della Sera, 13 marzo 1969)
I am the root
I am the progress
I am the aggressor
I am the tablet
Lou Reed & Metallica, THE VIEW
Per provare a rispondere alla domanda iniziale di questa riflessione (“Come può esistere un oggetto artistico rivoluzionario, se non esiste più il pubblico adatto a recepirlo e fruirlo? Se gli ascoltatori, i lettori, gli spettatori cioè non sono minimamente preparati e allenati a riconoscere un capolavoro – ma solo oggetti costruiti secondo codici e convenzioni molto rigidi e standardizzati – che fine fa il capolavoro?”), un caso-studio esemplare può essere Lulu, il concept album liberamente ispirato ai drammi di Frank Wedekind Lo spirito della terra (1895) e Il vaso di Pandora (1904), e pubblicato esattamente un anno fa da Lou Reed e dai Metallica.
Il problema fondamentale, infatti, è che non esiste più il contesto adatto alla comprensione: il livellamento e il conformismo culturale si sono spinti talmente avanti che l’avanguardia e l’opera “interessante” non sono neanche più riconoscibili in quanto tali, ma vengono confusi con il rumore di fondo, con il rumore bianco.
Un esempio del tipo di ricezione ricevuto da un album complesso e spiazzante come Lulu è quello fornito dai commenti – tutti negativi – che esso ha ricevuto immediatamente dopo l’uscita e nei mesi successivi, da parte sia degli ascoltatori comuni che di quelli più “autorevoli”.
Alex Skolnick, chitarrista dei Testament, scriveva sul suo blog personale in un post del 16 novembre 2011 intitolato significativamente Art Imitating Music: “Prevedo che il prossimo disco dei Metallica sarà un sollievo per i fan (…). Certo, non sarà il ritorno del loro sound ‘Master of Puppets’ che alcuni da sempre invocano, ma sarà sulla scorta dell’accettabile ‘Death Magnetic’, forse anche più forte. I progetti come ‘Lulu’ esistono al preciso scopo di sfidare le norme, e possono essere perseguiti solo da autori di grande successo, al vertice della propria carriera e con un’altissima consapevolezza artistica. Sono godibili e apprezzabili unicamente come fenomeni da osservare, ponderare e discutere, piuttosto che da ascoltare”. A prima vista, siamo di fronte a considerazioni ragionevoli, e tutto sommato di buon senso: in realtà, la prospettiva attraverso cui l’oggetto culturale viene guardato in questo caso è invertita, completamente capovolta. E c’è il rischio molto serio di un fraintendimento totale, della torsione-distorsione del senso di un’opera come questa, alla quale i musicisti ventenni e i trentenni, non i settantenni, dovrebbero tendere.
Continua Skolnick: “Se paragonato a lavori di artisti come Warhol, Shepard Fairey e altri, oppure agli album di John Lennon e Yoko Ono, dello stesso Lou Reed, di Pat Metheny e di John Cage, ‘Lulu’ acquista un senso; quello di un’opera d’arte destinata ad essere apprezzata come una strana installazione in un museo, qualcosa che vi fermate a guardare ma che probabilmente non vi mettereste in casa, a meno che non abbiate gusti eccentrici. È arte moderna rimossa dal museo e piazzata nel mondo, attraverso una combinazione di elementi prima inimmaginabile (a previously unimaginable combination of elements)”.
“A previously unimaginable combination of elements”: decisamente un’ottima approssimazione per definire che cos’è arte. Il problema è che Alex Skolnick separa totalmente l’arte dal resto, dalla produzione dei Metallica così come si è andata evolvendo dal 1981 (un’evoluzione creativa di cui Lulu è un risultato significativo, e non una parentesi), e soprattutto dal gusto della gente: dal “tipo di cose che vi mettereste in casa”, dagli oggetti culturali cioè a cui ci si affeziona e con cui si stabilisce una relazione affettiva e cognitiva duratura. “A meno che non abbiate gusti eccentrici”, le opere d’arte (queste strane cose) rimangono escluse da questo tipo di relazione: ciò ci rivela parecchi aspetti interessanti riguardo alla distanza attuale tra arte e pubblico, e soprattutto alla percezione diffusa dell’arte contemporanea.
Nell’era della stupidità, dunque, l’intelligenza e l’originalità non solo non sono (più) valori, ma non vengono neanche più riconosciute come tali. Nemmeno, al limite, in senso negativo e oppositivo. Detto altrimenti: come fa una cosa a essere percepita come anche come potenziale “pericolo”, se non è percepita? Se non entra proprio nel raggio dei radar mentali? I cervelli (almeno la maggior parte di essi) sono forse conformati in modo tale da respingere completamente – anche come disturbo e perturbazione – l’innovazione e qualsiasi opera/operazione vagamente innovativa.
Christian Caliandro
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