San Rocco Magazine: lettura è architettura
Una rivista di architetti per architetti. Che però non lesina le “contaminazioni” con l’arte. E che alla Biennale di Chipperfield si è presentata in ben due vesti. Su un tavolo e con una fotocopiatrice. Ne abbiamo parlato con il direttore, Matteo Ghidoni.
Verranno stampati solo venti numeri nell’arco di cinque anni. San Rocco, come rivista, nasce da e per architetti di tutto il mondo nel novembre del 2010 e prende il nome da un luogo particolare di Monza. Posto per il quale Giorgio Grassi e Aldo Rossi, nel 1971, ingaggiarono una sorta di gara di progetto che rimase senza vincitore. Oggi, invece di un volume dal segno architettonico, sorgono due condomini ordinari. Ma un’iscrizione in rilievo ricorda l’evento assieme ad alcune fotografie in bianco e nero del modello progettato e mai realizzato.
San Rocco magazine, fra le sue pagine, assimila estetica e valori di questa vicenda facendo “i conti con il linguaggio e con i modi di comunicare che oggi esistono senza necessariamente adeguarsi alla loro superficialità o alla loro velocità”, come sottolinea Matteo Ghidoni, direttore della rivista.
Dunque, direttore, San Rocco quale tipo di contemporaneo racconta e con quali mezzi si esprime? Qual è il suo lettore ideale?
San Rocco è una rivista scritta da architetti immersi nella professione. Il nostro interesse per l’architettura è quindi legato al nostro operare nel presente. Il modo proprio di San Rocco di rapportarsi al contemporaneo sta nel non sforzarsi di volere a tutti i costi coincidere col proprio tempo adeguandosi alle sue pretese: nell’essere, in un certo senso, inattuale. Noi siamo i lettori ideali di San Rocco, perché siamo i primi diretti beneficiari della qualità del progetto. E siamo convinti che ci sia da qualche parte un pubblico che condivide i nostri interessi.
Una grafica decisa vi contraddistingue nettamente, tra rigore lineare e fatata indecifrabilità. Perché questa precisa scelta visuale?
Cerchiamo di lavorare sulle relazioni fra testi, fotografie e disegni in modo da rispettarne i loro codici specifici. Ridisegniamo i progetti che pubblichiamo per capirli, oltre che per conferire omogeneità grafica. Trattiamo il disegno di architettura nel modo più tradizionale possibile, utilizzando metodi di rappresentazione consolidati da secoli. Il bianco e nero prevale per motivi economici.
L’arte e l’architettura sono le due anime di San Rocco. Come si fondono assieme? Oppure ne prevale una?
Parlando di architettura è inevitabile incrociare l’arte, se non altro perché le due sono costitutivamente legate. In San Rocco l’arte è spesso usata come chiave interpretativa o come contrappunto critico nella lettura di un progetto. I collage di John Baldessari possono offrirci un punto di vista sulla città contemporanea, così come le lettere di Alighiero Boetti dall’Afghanistan. I dipinti di Philip Guston e le prime architetture di Robert Venturi condividono un rapporto problematico con la Pop Art, che spiega qualcosa di entrambi. Per non parlare di artisti come Lewis Baltz, che hanno a lungo e intenzionalmente lavorato alla lettura della città e del territorio.
Quale tipologia di eventi organizza San Rocco?
L’attività della rivista si nutre di una serie di iniziative – presentazioni, conversazioni, mostre – che hanno lo scopo di moltiplicare le occasioni di dibattito e farle uscire dallo spazio della carta. Le mostre accompagnano i temi dei singoli numeri: ad esempio a Stoccolma abbiamo invitato un artista (Ignacio Uriarte) e due architetti (Sam Jacob e Matilde Cassani) a produrre interventi site specific in una galleria sul tema The even covering of the field, che è il titolo di San Rocco #2.
Alla Biennale di Architettura di Venezia com’è nata l’idea di Collaboration? Ci descrivi alcuni progetti/oggetti che si trovavano adagiati al tavolo di Chipperfield?
Il titolo proposto da Chipperfield ci è sembrato l’occasione ideale per sviluppare il tema attraverso una versione tridimensionale del call for papers per il prossimo numero: una versione fatta di oggetti, plastici, fotografie e disegni prodotti da un ampio gruppo di contributor e accatastati su un tavolo. Abbiamo individuato esempi di collaborazioni sincroniche, come quella tra Rossi e Aymonino per il Gallaratese, indagata dalle fotografie di Bas Princen, e diacroniche, come la sala d’attesa di Penn Station, che è una copia delle terme di Caracalla (scalata del 20%) a opera di McKim, Mead and White, raccontata sul tavolo da un modello interpretativo in feltro di Valter Scelsi.
Era ben congegnata anche l’installazione/performance, sempre in Arsenale, con la fotocopiatrice. Potresti descriverne la funzione e l’idea?
Il Book of Copies è il progetto di un grande libro di architetture da copiare, con lo scopo di produrre altre architetture. In occasione della Biennale abbiamo contattato un centinaio di architetti di tutto il mondo, chiedendo loro di mandarci un pacchetto di fotocopie A4 in bianco e nero riguardante una determinata classe di edifici: Case Gialle, Piramidi, Ospedali, Prigioni, Palazzi per Tiranni e così via… Le fotocopie sono state catalogate e disposte su un tavolo/archivio, e messe a disposizione dei visitatori della mostra, che hanno la possibilità di fotocopiarle a loro volta. Ancora una volta, l’idea è che il Book of Copies si basi su una conoscenza condivisa dell’architettura, che coincide con tutta l’architettura progettata e costruita. Il Book of Copies dipende da questo patrimonio e al tempo stesso contribuisce a ridefinirlo.
Progetti futuri?
Una Summer School di San Rocco, un Grand Tour. E… un miglioramento delle finanze della rivista!
Ginevra Bria
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