Per un tragico e banale incidente moriva lo scorso 17 ottobre nel cuore di Tokyo Koji Wakamatsu, forse un nome non immediatamente noto al grande pubblico ma un protagonista e figura culto del cinema mondiale che, in particolare in Giappone, ha costituto un’esperienza e una lezione indelebile per almeno una generazione di registi e non solo.
Nato in periferia a Wakuya, nella prefettura di Myagi nel 1936, il giovane Wakamatsu inizia ad avvicinarsi al mondo del cinema quando ancora è un lavoratore edile e bracciante, ma iniziando con un certo pragmatismo e libertà mentale a lavorare all’inizio degli Anni Sessanta per la Nikkatsu, a tutt’oggi una delle principali compagnie di intrattenimento televisivo e cinematografico del Sol Levante. Per la compagnia il regista realizzò più di venti pellicole che partivano da spunti di cronaca del tempo, film non particolarmente rilevanti forse ma che diedero a Wakamatsu la possibilità di esercitarsi in tempi ridotti alla realizzazione di film che puntavano sul presente e perciò non avevano punti di contatto con la tradizione dei maestri giapponesi.
Ma è immediata la volontà e l’interesse che Wakamatsu sviluppa verso il cinema di genere, ed in particolare per i Pink Movie, ossia film dal contenuto erotico che costituivano un forte richiamo per il pubblico dell’epoca e che, analogamente al cinema nostrano, furono archiviati con la nascita dei canali televisivi privati e dell’homevideo.
È nella seconda metà degli Anni Sessanta che Wakamatsu imbocca la strada del cinema indipendente e, sfinito da produttori che intimavano tagli e censure, gira autonomamente alcuni dei suoi film più importanti con budget ridottissimi e strutturando quello che, fino alla fine, sarebbe stato il suo immaginario basato sul binomio sesso e violenza.
C’è sempre qualcosa che flagella i corpi: la violenza, lo stupro, la droga, lo scontro politico, che appaiono nei suoi film non tanto come corollari di un’estetica nichilista sulla vita, ma come l’ossessivo ritornare fissamente sugli stessi temi per esorcizzare il dramma e lo shock culturale di un’intera generazione di giovani giapponesi come Wakamatsu che si trovano nel mezzo di quel cambiamento culturale, sociale e politico che dal dopoguerra si proiettava con sentimenti contrastanti verso il futuro e, soprattutto, verso l’Occidente.
L’estremismo politico che serpeggia nei film di Wakamatsu è la trasposizione che nel reale produsse culturalmente lungo gli anni sessanta esempi estremi di segno opposto: basti pensare al discorso e alle posizioni reazionarie di Yukio Mishima, che si concluse nel 1970 con il celebre suicidio rituale del grande scrittore al quale tra l’altro è dedicato il recentissimo film di Wakamatsu (11.25: The Day He Chose His Own Fate, 2012). Oppure, sempre nello stesso 1970, con il dirottamento di un aereo della Jal, per mano di un gruppo di estremisti della sinistra giapponese cui prese parte anche il membro della band d’avanguardia giapponese Les Rallizes Dénudés. Film come Ecstasy of the Angels (1972) nascono proprio da questo clima e dalla sua gelida rappresentazione.
Se questo è lo sfondo sociale e culturale sul quale si imprimevano le immagini dei film di Wakamatsu, va però anche rilevata una personalissima capacità e sensibilità del regista di scandagliare, anche partendo dalle più violente e distruttive premesse, la sfera sessuale.
The Embryo Hunts in Secret (1966) e Go Go Second Time Virgin (1969), due dei suoi capolavori, hanno lasciato il segno non solo per le immagini e per le situazioni estreme (con notevole coraggio per l’epoca) ma anche per l’abilità di Wakamatsu di sdoganare alcuni segni del genere softcore in pellicole sperimentali nelle quali traspare la fascinazione per il free cinema e per autori europei quali Godard.
In queste e in altri film come Serial Rapist (1978) il tema ossessivo dello stupro è portato in evidenza per stigmatizzare lo sfruttamento della donna in una società, quella giapponese, che tutt’oggi cova nel profondo una certa misoginia.
Ben lontane dalle cartoline zen alle quali ci hanno abituato famosi registi, Wakamatsu è stato anche il produttore di visioni dell’eros come il capolavoro maledetto di Nagisa Oshima, L’impero dei Sensi (1976), il film che incontrò in patria e fuori dai confini nazionali infiniti problemi di censura e che ancora oggi rimane intatto nel conservare la sua tesi erotica estrema.
Il percorso artistico e la carica eversiva del regista non si sono certo limitati solo agli anni sessanta e settanta; basti pensare a Caterpillar (2010) che corse per l’Orso d’oro a Berlino e che rappresenta probabilmente il suo testamento di una vita spesa ad indagare con ostinata attenzione la natura della violenza e del rapporto vittima-carnefice.
Con la morte di Wakamatsu, ci auguriamo, la sua figura verrà finalmente analizzata e studiata capillarmente anche fuori dai confini nazionali e dai ristretti circoli di cinefili ed esperti che hanno seguito con passione e fedeltà ogni opera del regista.
Riccardo Conti
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