Arles come Bilbao. Doug Aitken per la Luma Foundation
Abbiamo “spremuto” Doug Aitken poco prima di una regale inaugurazione, con un ricco parterre di ospiti internazionali e arlesiani, un concerto memorabile del padre del minimalismo Terry Riley e una cena stellata con commensali come Hans Ulrich Obrist, Eva Presenhuber, Bice Curiger e Lucien Clergue. Dietro la mostra, un progetto di cui Maya Hofmann è la signora assoluta: con la sua Fondazione Luma sta tentando di trasformare Arles in una seconda Bilbao. Il progetto di Gehry è in attesa dei permessi.
Come nasce la collaborazione con Terry Riley?
Mi sento fortunato a lavorare con lui, la sua musica mi ha sempre affascinato, forse non tanto per il risultato quanto per la struttura su cui si basa, legata alla sperimentazione con le strutture circolari. Spesso ho sperimentato con le immagini nella stessa direzione.
Come in questo caso?
Sì, in questo paesaggio ho lavorato per scoprirne le pieghe, gli attriti e moduli circolari. Non volevo fare un documentario ma usare le immagini per distillare questi aspetti strutturali.
Con Riley che vi siete detti?
Volevamo creare qualcosa che non avesse un palcoscenico e fosse integrato dentro l’architettura dell’installazione. Abbiamo parlato di come sincronizzare i progetti. Lui ha pensato una struttura musicale che accogliesse l’improvvisazione. Inizialmente era disorientato ma poi ha trovato il modo di umanizzare il progetto con la sua prospettiva.
Avete fatto un’app per iPad.
Mentre l’installazione site specific è fatta di immagini che ti circondano, l’app si pone dalla parte opposta dello spettro percettivo: puoi esplorare l’opera da ogni posto e in ogni momento. È accessibile a tutti in modo gratuito e immediato.
Però è un medium percettivamente ristretto.
Gli schermi piccoli mi hanno interessato quando ho visto che potevano diventare strumenti per una specie di tour archeologico.
L’installazione è gigantesca, come vuoi che venga fruita? Passeggiandovi dentro come in un paesaggio reale?
Sì, direi di sì, la cosa importante è lo stato di immersione che si può raggiungere.
Ci sono un paesaggio romantico e una presenza umana appena accennata. È un film ambiguo, tra documentario e finzione, senza essere né l’uno né l’altro…
Ero attratto da un’idea di attrito con il paesaggio. Una forma di coabitazione tra paesaggio naturale e storico, capitalismo ed ecologia. Non volevo una storia lineare. Personalmente ritengo che l’idea del cinema di finzione sia fallimentare. L’idea di guardare, stando seduti nel buio, dei personaggi che fanno delle cose non mi interessa. Volevo sperimentare invece la distanza che permane, nel museo, tra colui che guarda e l’oggetto o il contenuto guardati.
È uno sguardo differente. Per questo usi molto lo slow motion?
Sì, per creare un sistema di riflessione, in tutti i sensi. Se viaggi in aereo da Londra a Marsiglia impiegherai due ore, ma ci vorranno mesi se lo fai a piedi. Volevo dare il senso della lentezza. Se rallenti i processi trovi un gran valore aggiunto nei dettagli e le strutture narrative cambiano i dettagli che ti stanno attorno.
Quanto tempo hai speso su questo progetto?
Cinque anni e sono tornato più volte qui per permettere alla gerarchia degli elementi di scomparire e creare così una mappatura più aperta. Volevo trovare diverse forme d’attrito per introdurre più a fondo lo spettatore, usando magari anche concetti cinematografici.
Avevi un programma preciso prima di girare?
Avevo un’idea grezza, qualche geometria, come un origami. Ho cercato le giuste divisioni perché la geometria diventasse qualcosa. Ho trovato immagini inattese, da cui ho tratto molto.
Lavori sempre così?
Sì, mi interessa esplorare le relazioni possibili con il fruitore ma è l’esperienza a guidarmi con la sua frammentazione e complessità. Tutti i miei progetti sono esperimenti relativi a domande.
All’Hirschhorn Museum di Washington erano rivolte all’incontro vis-à-vis con il pubblico…
… all’idea di come le persone e il personale possano entrare nel paesaggio urbano e diventare essi stessi paesaggio.
Qui invece usi il paesaggio naturale.
I miei lavori si trasformano in corso d’opera, creando il loro proprio linguaggio. Mi piace assistere a questa metamorfosi e vedere come ciascuno di essi esprima bisogni propri. Da questo progetto nasce un’architettura di forme non rigide, ma di immagini e suoni che riempiono lo spazio, anche se sono fluidi e impermanenti.
Nel film hai introdotto elementi vagamente narrativi, come la casa o le candele.
Era tutto lì così, non volevo manipolare nulla. Anche i browning field sono davvero lì, così come il vento, il mistral, che è una presenza incredibile. Viene dal Nordafrica. Tutto era lì, tutto testimonia una complessità e che può impregnarsi di significati.
Qual è il tuo sentimento di fondo?
Straniante. È difficile definirlo, ma direi che è scioccante per me trovare nella moderna Europa un paesaggio come questo.
Il film appare laico ma c’è un che di sublime nell’esperienza dell’installazione.
Non ero interessato alle sensazioni ma alla connessione di frammenti in una struttura. Non c’è niente di specifico nel film, ma se lo vedi attraverso l’emozione può dare certi effetti. È un approccio personale.
Ti senti influenzato dal cinema sperimentale americano?
Oggi la questione è la distribuzione, non chi fa le cose ma il canale in cui appaiono.
E il cinema commerciale?
Ha standardizzato la visione e lo spettatore. Le sue strutture narrative sono chiare nelle premesse come nelle conclusioni, ma per me restare fuori dalla formula è l’unico modo per sentirmi vivo, per riconfigurare il design della percezione.
Nicola Davide Angerame
Arles // fino al 2 dicembre 2012
Doug Aitken – Altered Earth. Arles, city of moving images
a cura di Hans Ulrich Obrist
PARC DES ATELIERS
33 avenue Victor Hugo
www.doug-aitken-arles.com/luma.html
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