Arte, politica, nostalgia, storia. Una conversazione con Marcella Beccaria
L’ultima mostra del Castello di Rivoli, “La storia che non ho vissuto (testimone indiretto)”, solleva interrogativi importanti. Ne abbiamo parlato con Marcella Beccaria, curatrice della rassegna. Per cercare di capire come e in che direzione si muovono alcuni artisti italiani contemporanei.
Una critica spesso mossa al Castello di Rivoli è di non occuparsi abbastanza dell’arte italiana “giovane” e “del territorio”. La tua mostra è fatta con opere di “giovani” artisti italiani, sette per la precisione, di cui una torinese d’adozione, Eva Frapiccini. Cosa ne pensi della questione, in linea generale?
La questione è bidirezionale: il lamento che il Castello non si occupi dell’arte italiana giovane porta con sé anche la scarsa attenzione che la stampa specialistica e non sembra riservare a tale tipologia di programmazione, giudicata “di nicchia”. Una mostra di artisti italiani giovani non sembra interessare una certa stampa, oppure sembra un’ottima occasione per alcuni recensori per accanirsi negativamente sul lavoro di artisti che stanno ancora crescendo. Non parliamo poi dei blog su Internet, da dove, dietro al meschino schermo dell’anonimato, arriva davvero il peggio.
Al di là di ciò, il museo come sostiene i giovani?
La storia che non ho vissuto (testimone indiretto) funziona in questo senso a vari livelli, ed estende linee guida presenti nell’indirizzo del museo. La mostra è un’evoluzione della Borsa per Giovani Artisti Italiani del Castello di Rivoli che abbiamo fondato nel 2000 insieme a un encomiabile gruppo di Amici Sostenitori del Castello. Da adesso, con questa mostra che – ci tengo a ricordarlo – è generosamente finanziata da un illuminato gruppo di Sostenitori, apriamo un nuovo capitolo: innanzitutto l’iniziativa della Borsa non dà risalto soltanto a un unico vincitore, ma a più artisti italiani, che possono lavorare e presentare le loro opere nel contesto del museo. Inoltre, in base ai voti degli stessi Amici, verrà designato un vincitore, o una vincitrice. L’annuncio lo faremo il 10 novembre, in un’apposita conferenza presso Artissima e di tale vincitore acquisteremo un’opera per la collezione del Museo.
Quindi gli “amici del museo” hanno un ruolo attivo…
Il loro ruolo nel progetto è di fondamentale importanza, ed è significativo che i fondi raccolti in questo ambito sostengano l’arte italiana: parafrasando una celebre collezionista che diceva che “i soldi fatti a New York devono essere spesi a New York”, possiamo dire che i soldi generati in Italia vengono messi a disposizione dell’arte italiana.
Riprendiamo il filo del discorso sul sostegno ai giovani artisti italiani.
In questa mostra ci sono – per la prima volta nella storia del museo – anche una serie di importantissime partnership, che includono Rai-La storia siamo noi, Italia 150 e La Stampa. Con ciascuno di loro abbiamo sviluppato programmi ad hoc, nei quali gli artisti e le loro opere sono protagonisti. Con La Stampa, ad esempio, abbiamo prodotto il catalogo, nella forma di un giornale. Questa pubblicazione, proprio per sostenere la diffusione del lavoro dei giovani artisti, è distribuita gratuitamente, al museo e fuori di esso, in luoghi deputati, come biblioteche o altre istituzioni culturali, ma anche in luoghi ricreativi, come alberghi, bar e ristoranti. Ancora: la mostra è anche il il punto di avvio di una nuova iniziativa di Amaci dedicata appunto all’arte italiana e ai suoi esponenti.
Comunque non voglio glissare su una questione importante sollevata dalla tua prima domanda: nel lavoro curatoriale svolto con il Castello ho fatto progetti e mostre con Roberto Cuoghi, Francesco Vezzoli, Paola Pivi, Lara Favaretto, solo per citarne alcuni, in certi casi dedicando loro la prima mostra o progetto museale o il primo catalogo. Per quanto riguarda l’attenzione al territorio, teniamo presente che a Torino in questo momento altre due realtà museali – Fondazione Sandretto e GAM – hanno elaborato due ottimi filoni espositivi incentrati sul panorama torinese, rispettivamente con Greater Torino e Vitrine. Dal momento che i concetti di “sinergia e sistema” sono alla base della rete museale torinese, credo sia giusto plaudere a queste programmazioni e, da parte nostra, diversificare.
Veniamo alla mostra. Su Artribune abbiamo parlato spesso della questione “nostalgia”, di quella che Simon Reynolds chiama “retro-mania”. Cosa distingue il concept della tua mostra da questo fenomeno?
Certo il saggio di Reynolds è stimolante, fotografa bene una tendenza. Alcuni anni fa ricordo di aver parlato con Nan Goldin del gusto per il passato. Mi raccontò come per lei e i suoi amici, alla fine degli Anni Settanta, la mania erano gli Anni Cinquanta. “Your Seventies were our Fifties”, mi disse. Comunque la retro-mania, nelle sue varie declinazioni, mi sembra sia assimilabile soprattutto a una categoria del gusto, riferita a un periodo ben riconoscibile. A prescindere da che decade si scelga come propria icona, c’è poi sempre una forte componente nostalgica…
In questo senso, non credo che si possa accorpare nel Reynolds-pensiero questa mostra e i suoi artisti. Non direi proprio che nessuno qui sia un nostalgico. Le opere si ispirano a fatti compresi tra il 1920 e il 1981, e coprono un arco cronologico che dalle ambizioni imperialiste del regime fascista passa per gli anni della cosiddetta “strategia della tensione”, al terrorismo, fino al dilagare dei poteri oscuri come la P2 e al loro smascheramento all’inizio degli Anni Ottanta. Non sono certo anni che, storicamente, nessun italiano sensato vorrebbe rivivere, di certo non gli artisti in mostra. Non dimenticare questi fatti e approfondirli è però fondamentale. Basti un esempio su tutti: rimaniamo il Paese delle stragi impunite. Non dimenticarcene è un nostro dovere civile. Questo fanno gli artisti in mostra. La collaborazione con La Rai – La storia siamo noi ci ha permesso proprio di approfondire anche una parte di questo aspetto, e partendo dalle opere degli artisti ogni sabato mattina dialoghiamo con centinaia di studenti – qui sì, insistendo molto sul territorio – sensibilizzandoli su tematiche che la scuola dell’obbligo spesso non riesce a coprire nei propri programmi di studio.
Altro tema caro ad Artribune: il cosiddetto “nuovo realismo”. Fra l’altro, in Italia viene proprio dall’Università di Torino, da Maurizio Ferraris in particolare. Come credi che possa essere “applicato” un tema del genere all’arte contemporanea?
Sì, Ferraris da tempo si è opposto con coraggio a un mainstream filosofico nostrano che tende all’idealismo. Dalla sua ha la brutalità dei fatti: le tragedie e le guerre sono sì, eventi mediatici, ma i morti sono reali. Questo mi pare sia il nocciolo inconfutabile di fronte al quale il suo pensiero ci pone. Credo si possa dire che l’atteggiamento di partenza che accomuna gli artisti presenti in mostra sia assimilabile a quello di “nuovi realisti”: le vittime delle stragi, del terrorismo, di Ustica ci sono, la nostra storia contiene pesantissimi capitoli di assurda violenza e questi capitoli gli artisti li affrontano, sono alla base dell’ispirazione delle opere in mostra.
Ma attenzione, parlo di atteggiamento, spunto iniziale, perché l’elaborazione, i risultati e quindi le stesse opere sono il frutto di ulteriori percorsi che in ciascun artista sono differenti, e differenti sono anche le motivazioni. C’è chi ha un’agenda più politica, chi parte da motivazioni più personali. Quindi lascerei alla filosofia le sue categorie… quello che forse è interessante è chiedersi: perché proprio in questi anni in Italia più giovani artisti si interrogano sul passato? Evidentemente siamo alla fine, oppure all’inizio di un ciclo, e parlare del passato è un modo per cercare di capire come siamo arrivati a questo presente.
Nostalgia, storia, realismo… La sequenza arriva presto alla parola “politica”. L’ultimo Premio Furla era fortemente connotato in questo senso. Qual è la tua posizione sull’annosa questione “arte e politica”?
Sarà annosa, ma diciamo pure che è una questione che vale la pena di approfondire. Separo l’arte dalla propaganda, ma guardo con grande passione all’arte che sa dichiarare le proprie posizioni, e anche uscire dalla propria “rete di sicurezza”, per parlare con le persone di fatti che riguardano le persone. Anche questo è un gesto “politico”. La mostra La storia che non ho vissuto (testimone indiretto) fa anche questo: parla alle persone di fatti che conoscono. Uscendo dal sistema autoreferenziale del contemporaneo, la situazione si ribalta: gli artisti si riferiscono a fatti che non hanno vissuto, perché in alcuni casi non erano nemmeno nati, mentre per molti dei visitatori, purtroppo, si tratta anche di ripensare a eventi che invece hanno vissuto, e di cui conservano determinate memorie.
Ultimo tema: l’impegno, l’engagement per dirla nella lingua di Sartre. Un tuo parere anche su questo.
Domanda interessante e complessa. Recentemente ho letto un articolo dove si rifletteva appunto su come la figura dell’intellettuale engagé riporti a una nozione del passato, per alcuni figlia di un’utopia, per altri, peggio, di una moda. Sarà, certo però che ogni tanto potersi abbeverare un po’ di più al sapere che può scaturire dagli intellettuali non sarebbe un male. Non è un caso che Pasolini sia spesso citato dagli artisti di queste ultime generazioni e soprattutto i suoi scritti e i suoi articoli continuino a stimolare il lavoro di molti giovani artisti.
Marco Enrico Giacomelli
Rivoli // fino al 18 novembre 2012
La storia che non ho vissuto (Testimone indiretto)
a cura di Marcella Beccaria
CASTELLO DI RIVOLI
Piazza Mafalda di Savoia
011 9565280
www.castellodirivoli.org
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