Biennale 2012. Quello che resta
Cosa rimane della più grande mostra di architettura internazionale, arrivata alla sua 13esima edizione, quest’anno sotto la cura dell’inglese David Chipperfield? Non moltissimo. Perché, fatti salvi alcuni esempi, nella Biennale si fa fatica a ritrovare, tra le decine di interpretazioni soggettive e autoreferenziali, il common ground. Per verificarlo di persona, e per chi ancora non l'ha fatto, c'è una settimana di tempo.
Le aspettative erano molte, per questa Biennale di Architettura di Venezia. Doveva essere l’occasione per mettere da parte gli individualismi e riflettere sui grandi temi contemporanei, un modo per analizzare le trasformazioni in atto evidenziando il contributo di ogni architetto. Il prodotto finale appare invece denso ma caotico, a tratti piatto e spento (e le critiche sono piovute anche da illustri rappresentanti del mondo dell’architettura, da Wolf Prix a Patrick Schumacher). Per citare solo un paio di approcci, tra i più evidenti se ne contrappongono due. Da un lato – ed è il caso di Peter Eisenman e FAT – il Common Ground è inteso come sguardo all’indietro: si riprendono Piranesi, Palladio, il kitsch e la Metafisica, quasi a dire che in comune abbiamo solo il passato, che rimescoliamo ancora oggi, in attesa di buone idee. Quando, invece, le nuove generazioni sono già andate oltre. Dall’altro lato – ed è il caso dei soliti e più brillanti nomi noti, come Zaha Hadid ed Herzog & de Meuron – il tema viene astutamente aggirato, usando lo spazio a disposizione come l’ennesima monografica dome mettere a nudo lati più o meno nascosti dei propri progetti.
Il risultato? Qualsiasi cosa può essere, ovviamente, commond ground, ridimensionando notevolmente la valenza culturale dell’operazione curatoriale di Chipperfield. Senza considerare che, di visioni per il futuro dell’architettura, non se ne vede neanche l’ombra.
Cosa si salva dunque di questa Biennale diretta da David Chipperfield? Partiamo dall’Arsenale, il lungo percorso dove il tema Commond Ground dovrebbe essere sviluppato dagli studi invitati. L’ingresso è uno dei più scialbi mai visti: soliti pannelli alle pareti, plastici e fotografie. Nessuna emozione fino a Gateway di Norman Foster, Carlos Carcas e Charles Sandison che, per l’impatto visivo e la spettacolarità dell’allestimento, dà la prima vera scossa, risvegliando dal torpore in cui il visitatore era caduto fin lì: un collage di foto, musiche e disegni, il tutto proiettato a occupare lo spazio circostante per raccontare, anche attraverso l’architettura, momenti di storia condivisa.
Architecture and Affect di Farshid Moussavi Architecture incuriosisce per il tentativo, ben riuscito, di teletrasportare lo spettatore nelle architetture rappresentate. L’installazione è un’immersione sensoriale pari a quella che si avrebbe dal vivo, frutto di una ricerca portata avanti dall’architetto iraniano, che propone una nuova tassonomia della storia dell’architettura basata sulle reazioni che gli edifici suscitano negli osservatori.
Torre David gran horizonte di Urban Think Tank, Justin McGuirk, Alfredo Brillembourg, Hubert Klumpner e Iwan Baan, oltre che per il Leone d’oro, è un progetto che va citato perché rimane impresso per almeno due motivi: il tema e la sua comunicazione. La nascita di comunità informali, benché sia un argomento stranoto, viene qui affrontato da più fronti. Un anno di studio per capire l’organizzazione sociale di quello che viene definito uno dei primi slum verticali al mondo: la Torre David a Caracas, 45 piani di altezza abbandonati dal 1993, oggi rifugio e luogo di aggregazione per oltre 750 famiglie. Se da molti questo è visto come un fallimento, il progetto lo interpreta come un potenziale modello di innovazione e sperimentazione. Ma come rappresentare tutto questo? Niente di meglio che aprire un tipico ristorante venezuelano nel cuore delle Corderie, ricreando quell’atmosfera vivace, ricca di odori, colori e sapori che catapultano il visitatore direttamente nella cultura latina.
Ai Giardini, per quanto riguarda i Padiglioni nazionali, incoroniamo cinque Paesi: Usa, Romania, Brasile, Israele e Paesi Nordici. Gli americani hanno il merito di aver coinvolto attivamente lo spettatore con 124 pannelli semoventi sui quali scoprire tanti microinterventi, spontanei e non, di miglioramento urbano, realizzati da artisti, architetti e cittadini statunitensi.
Anche la Romania punta sull’interattività in una mostra in cui ognuno, con il proprio pezzo di carta, può imprimere con speciali timbri architetture e frasi celebri. Un tributo a Ion Mincu, figura di rilievo nell’architettura romena. Il Brasile si conferma uno dei Paesi da tenere sotto osservazione: qui si contrappongono lo spirito di godimento della vita – con amache e musiche secondo lo slogan Riposatevi di Lúcio Costa, risalente al 1964 – e il racconto video di una tranquilla villa della borghesia brasiliana realizzato da Marcio Kogan.
Israele ha un’idea geniale: produrre e vendere, appositamente per la Biennale, oggetti che rappresentano ognuno un evento chiave, un simbolo del difficile rapporto del Paese con gli Stati Uniti. Infine i Paesi Nordici che, in un’elegante cornice, propongono il confronto tra Finlandia, Norvegia e Svezia, esponendo decine di prototipi, integrando potenzialità dei materiali e uso della luce.
Il Padiglione più deludente è sicuramente la Germania. Il tema Reduce/Reuse/Recycle Resource Architecture e l’allestimento a cura del noto designer Konstantin Grcic lasciavano presumere un buon risultato. Le aspettative sono state disattese e il grande padiglione risulta una banale mostra di gigantografie di progetti marginali da osservare rialzati su pedane da “acqua alta”.
Zaira Magliozzi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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