Dialoghi di Estetica. Parola a Paola Pivi

Dopo la collaborazione con l’Osservatorio Mostre e Musei della Scuola Normale di Pisa, su Artribune parte una nuova prestigiosa sinergia. Questa volta con il celeberrimo LabOnt dell’Università di Torino, il Laboratorio di Ontologia diretto da Maurizio Ferraris. I “Dialoghi di Estetica” iniziano con la conversazione tra Davide Dal Sasso e Paola Pivi.

Consideriamo alcune tue opere: una pizza dal diametro di due metri e trentadue, cento cinesi in carne e ossa esposti uno accanto all’altro negli spazi della Galleria De Carlo a Milano e di Frieze Art Fair a Londra, un elicottero, un caccia e un camion che vanno gambe all’aria. Secondo te l’arte è ironia o sfida?
Ironia e sfida per me sono due degli ingredienti, ma nessuno dei due è il punto di partenza, che invece è il desiderio di fare un’opera, di rendere visibile un’immagine della mente. Ironia e sfida… due lati di una stessa moneta complessa. Nessuno dei due ha il sopravvento per me personalmente, ma per il pubblico potrebbe essere diverso.

Ma l’opera allora che cos’è: un’idea, un oggetto o, come si dice spesso, una rappresentazione?
Aggiungerei a queste tre una quarta possibilità: realtà. Fare arte per me vuol dire interagire e manipolare la realtà. Quando per esempio ho esposto il caccia Fiat G-91 sottosopra (1999) o il Piper Seneca, un aeroplano a 6 posti che ruota su se stesso all’ingresso del Central Park a New York (2012), non ho esposto né un disegno né un fumetto del caccia e del Piper Seneca. Questi sono oggetti veri e propri, non sono le loro rappresentazioni visive. E questo vale anche per i cinesi e la pizza, c’erano davvero prima di diventare immagini.

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Paola Pivi, Camion, 1997. Photo: Paola Pivi – Courtesy Massimo De Carlo, Milano/Londra.

Possiamo dire che si tratta prima di tutto di agire, con e su un oggetto, nella realtà e in seguito di fissare questa azione con la fotografia?
Esatto. Manipolare la realtà per me vuol dire intervenire in un preciso momento e luogo su di essa. La performance è la forma d’arte più vicina a questo mio modo di concepire l’arte, perché nella performance il momento della creazione e della produzione di un’opera, la nascita di quell’opera e la sua percezione da parte dello spettatore, coincidono nel tempo e nel luogo terminando contemporaneamente con la definitiva scomparsa dell’opera. C’è un fascino particolare nelle ‘opere-performance’ che scompaiono e non saranno più disponibili alla vista diretta.

Insieme a installazioni e performance, lavori molto anche con la fotografia: un somaro finisce su una barca ben lontano dalla terra ferma, un leopardo passeggia silenzioso su centinaia di tazze di cappuccino. Anche per opere del genere la base è la realtà?
Assolutamente. L’asino era davvero sulla barca così come il leopardo si aggirava fra le tazze di cappuccino. Si tratta di performance anche in questi casi. E la fotografia è lo strumento che mi permette di fissarle e renderle visibili a chi non era presente al momento della performance. Talune sono performance pubbliche, mentre altre sono private. Untitled (zebras) (2003), le zebre sulla neve, sono state concepite fin dall’inizio come una performance privata. Invece, con il leopardo, doveva essere un evento pubblico ma, poiché il grosso felino spaventava molto, la performance è diventata privata.

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Paola Pivi, Pizza, 1998. Photo: Di Paolo – Courtesy Massimo De Carlo, Milano/Londra

Spesso si suppone però che con la fotografia ci si allontani comunque dalla realtà. Optando così per la finzione…
Invece per me la fotografia di una cosa vera è un mezzo potente per rievocare la realtà, come se potesse essere ricordata. La fotografia mi permette di fissare a livello visivo qualcosa che accade nella realtà e di trasmetterlo direttamente all’osservatore.

Questo tuo interesse per la realtà mi sembra ancora più evidente in alcune opere: How I roll (2012), il Piper Seneca che ruota su se stesso compiendo continuamente il giro della morte, It’s a cocktail party (2007) e Untitled (vases) (2010). Tutte sembrano avere una caratteristica comune: l’interesse per il formalismo scultoreo che un comune oggetto potrebbe esprimere attraverso le sue fattezze. Semplici oggetti possono essere intesi come sculture?
Una volta una persona mi ha detto: “Il tuo grande talento è la scultura”. Penso che sia qualcosa di appena percettibile ma vero. Apprezzo molto la danza di relazione fra lo spettatore e la scultura o l’oggetto; per me tutti gli oggetti hanno un’anima, come se le cellule o gli atomi riuniti potessero avere una storia. Così ricreo la dimensione scultorea anche nelle opere fotografiche, attraverso le dimensioni, mirando a sottolineare una relazione fisica con lo sguardo e il corpo e il tempo di movimento dell’osservatore.

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Paola Pivi, Tulkus 1880 to 2018, 2012 (dettaglio). Foto di Attilio Maranzano – Courtesy Castello di Rivoli, Museo di Arte Contemporanea

Parliamo di Tulkus 1880 to 2018, il work in progress da poco avviato con la mostra nella Manica Lunga del Castello di Rivoli. Aspiri a raccogliere più di mille ritratti fotografici di reincarnazioni riconosciute di maestri buddisti vissuti in precedenza. Anche questa opera permette di rintracciare un rapporto con la realtà?
In questo caso “alla lettera”, infatti ho raccolto migliaia di fotografie che esistevano nel mondo, che sono veri e propri oggetti sacri, raccogliendole presso monasteri, altari, negozi, fedeli, fotografi, collezionisti, archivi, musei, università in diverse aree del mondo dalla California alla Mongolia. I tulku ritratti nelle foto sono esseri umani istituzionalizzati dal riconoscimento ufficiale come tulku, venerati come figure divine, facenti parte del complesso sistema sociale del Buddismo Tibetano, la religione e cultura che si trova in Tibet e in altre parti del mondo. I pezzi in mostra sono foto vere prese dal mondo, anche se la definizione di tulku contempla la vincita sulla morte, un concetto lontano dalla realtà nella cultura occidentale.

Le foto diventano icone meditative, ma prima di questa mutazione dell’oggetto è il soggetto a essere speciale: chi è un tulku?
È un essere umano ufficialmente riconosciuto dal Buddismo Tibetano come la reincarnazione di un precedente maestro buddista. Un maestro che si reincarna in un tulku è una persona che studia e pratica il Buddismo a livelli così elevati da riuscire ad affinare capacità superiori, straordinarie e a noi sconosciute, che gli permettono di decidere in chi si reincarnerà e di comunicarlo agli altri. In questo modo nasce il tulku che verrà trovato e ufficialmente riconosciuto. Lo scopo di questa rinascita nel ciclo dell’esistenza è di aiutare tutti gli altri esseri senzienti. Alla base di questa capacità e compito si trova lo studio a livelli elevatissimi del Buddismo, che accompagna il tulku fin dalla tenera età. I tulku sono in grado di continuare a reincarnarsi in altri tulku per generazioni seguenti.

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Paola Pivi, Tulkus 1880 to 2018, 2012 (dettaglio). Foto di Attilio Maranzano – Courtesy Castello di Rivoli, Museo di Arte Contemporanea

Come avviene il riconoscimento di un tulku?
Le modalità per trovare i tulku sono molto complesse. Semplificando moltissimo posso darvi degli esempi: nella tradizione Kagyu accade spesso che un maestro nasconda una nota che riporta il luogo, il tempo e il nome o parte dei nomi dei genitori, della propria futura reincarnazione. Questa nota viene solitamente trovata alcuni anni dopo la morte del maestro. Nella tradizione Gelug, sogni particolari o visioni appaiono a importanti lama o maestri che erano vicini al maestro nella sua vita precedente, e forniscono indizi per determinare le direzioni e le indicazioni da dare al “search party”, un gruppo di lama o maestri con il compito di compiere un viaggio alla ricerca della reincarnazione. Spesso segni prodigiosi appaiono alla nascita del nuovo tulku. Una volta individuato, il bambino tulku viene sottoposto a esami, fra cui il rinomato esame del riconoscimento di una serie di oggetti appartenuti alla precedente reincarnazione, riconoscendoli fra gruppi di oggetti molto simili. Sono gli altri tulku o gli altri grandi maestri che hanno il potere di individuare, riconoscere, ufficializzare il nuovo tulku.

Questo legame con la società è molto interessante. La tua è un’opera che invita a riflettere sul rapporto fra arte e spiritualità. Ma la sua immissione nel mondo dell’arte non rischia di metterlo a repentaglio?
Reputo il contesto dell’arte (pura) adeguato a contenere e non mettere a repentaglio nessun aspetto del mondo. Le immagini dei tulku sono molto potenti e in nessun modo modificate dal contesto.

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Paola Pivi, It’s a cocktail party, 2008. Photo: Alessandro Zambianchi – Courtesy Massimo De Carlo, Milano/Londra, Galerie Perrotin, Hong Kong & Paris, Portikus, Frankfurt

Concordo sulla pregnanza delle icone, ma vengono esposte in uno degli spazi del mondo dell’arte…
Penso che il problema non si ponga: nello spazio espositivo coesistono gli oggetti sacri e la mia opera d’arte formata dall’accostamento di questi. Ritengo che la mia arte sia valorizzata dalla sacralità delle immagini e che le immagini siano veicolate dalla mia arte in questo nuovo contesto. Arte e spiritualità sono naturalmente legate dalla ricerca di una dimensione trascendente, a cominciare dai petroglifici.

Qualcosa da aggiungere?
Vorrei ringraziare Beatrice Merz, direttrice dei prestigiosi spazi del Castello di Rivoli che mi ha aiutato a finalizzare la prima mostra; Andrea Bellini, ex-condirettore del Castello, che ha accompagnato solidamente lo sviluppo di questo progetto fin dai suoi esordi con la visione dell’allestimento nella Manica Lunga; Davide Trapezi, il curatore, e le centinaia di persone e istituzioni che hanno reso possibile questo progetto.

Davide Dal Sasso

http://labont.it/

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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