Diego Caglioni. La tecnologia e l’impatto sulla società
Classe 1983, studi nel campo delle biotecnologie prima del diploma all'Accademia di Belle Arti di Bergamo, Diego Caglioni è una specie di mosca bianca tra gli artisti della sua generazione. Avulsa da trend e citazionismi diffusi, la sua ricerca è orientata al mondo della tecnologia e al suo impatto sulla società. Senza cadere in facili cliché, e con sguardo originale, l'artista dà “forma” a fenomeni, nuove relazioni e modalità di rappresentazione diventati parte integrante del nostro quotidiano.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Sto leggendo La forma dell’anima di Andrej Tarkovskij e Tell a vision di Fabiola Naldi. I miei gusti musicali spaziano dall’elettronica al metal, passando per il jazz. Nella mia playlist non mancano mai TOOL, Kyuss, Radiohead, Mogwai, Porcupine Tree, Ryoji Ikeda, Tim Buckley, Brian Eno e tanta musica Anni Settanta.
I luoghi che ti hanno affascinato.
Adoro Berlino. L’Albania mi ha colpito molto.
Le pellicole più amate.
Stalker e Nostalghia di Tarkovskij, La ragazza sul ponte di Patrice Leconte, Palermo Shooting di Wim Wenders e Wall-e.
Artisti guida?
Ho iniziato a fare video guardando i primi lavori di Bill Viola, Bruce Nauman e le astrazioni di Peter Kubelka. John Cage è stato per me altrettanto fondamentale. Tra i contemporanei i pochi che mi vengono in mente e che sono fonte d’ispirazione: Studio Azzurro, Anri Sala, Guido van der Werve e Carlo Zanni.
Come e quando è nata la tua passione per la tecnologia?
Da ragazzino mi divertivo ad assemblare pc, smontare qualsiasi cosa avesse un circuito e collezionarne le parti elettroniche. La vera passione però è nata ai tempi del liceo, quando ho scoperto di poter usare la tecnologia come strumento creativo.
Google Street View, flussi di dati in rete, hardware (come trackpad o mouse), clip postati su YouTube, chat, avatar sono i tuoi strumenti di lavoro.
Sì, servizi o strumenti digitali che tutti conosciamo e usiamo. Ho sempre cercato di usarli nel momento in cui sono diventati di largo consumo e non per “addetti ai lavori”; questo facilita la fruizione e rende più efficace il messaggio. È incredibile ed estremamente interessante come una tecnologia possa entrare nel quotidiano, creare dipendenza, arricchirci rapidamente la vita, tanto quanto impoverirla.
Sei interessato all’interazione con la gente, fisica e online. Come nel tuo progetto di mappatura dei monumenti esistenti dedicati a Garibaldi. Come è nato e cosa succede sul tuo sito garibaldimap.wordpress.com?
GaribaldiMap nasce da un workshop tenuto da Rossella Biscotti sulla memoria dello spazio. Nel progetto cerco di mappare, grazie all’aiuto degli utenti, i monumenti di Garibaldi nel mondo. Sul blog pubblico la foto della statua così come appare in Google Street View. Il punto di vista e il formato si sono dimostrati efficaci per trasformare gli scatti in cartoline, in modo da connettere un medium “antico” come la cartolina al popolare strumento di Google. Da alcune di queste immagini è nata anche una serie di ritratti del condottiero in forma di animazione in progress.
Hai fatto anche improvvisazioni video a un concerto. Non pensi che questo tipo di “rappresentazione” live, dopo le belle prove degli anni passati, sia oggi un po’ in decadenza?
Purtroppo hai ragione, paradossalmente oggi si sta sperimentando poco in questo ambito, si punta sugli effetti speciali e sulla spettacolarizzazione dove spesso il visivo è abusato. Invece è un delicato gioco di equilibri, e un po’ di semplicità non guasterebbe…
Facebook, Twitter, Tumblr, Instagram, Linkedin… Prevedi di usare questi canali per prossimi progetti?
Sarà inevitabile.
Il tuo lavoro è piuttosto politico. Penso al progetto gradi di libertà del 2008.
L’arte è sempre politica, in un modo o nell’altro… Nei lavori non voglio che la mia posizione sia troppo esplicita, ma in certe situazioni, come in gradi di libertà o Deepwater Horizon, è davvero impossibile. L’arte non può cambiare le leggi e la burocrazia, ma sicuramente è un buon “evidenziatore”.
Stai lavorando sul concetto di human flesh line. Da qui è scaturita anche l’immagine inedita per la copertina di questo numero di Artribune. Di che si tratta?
Chi lavora con il video usa spesso uno strumento chiamato vectorscope per misurare la saturazione e la tinta di un fotogramma. Per bilanciare i colori di un filmato in cui compaiono persone ci si basa su una linea chiamata tecnicamente flesh line su cui si posizionano tutte le tonalità della pelle umana. È un lavoro in fase progettuale ma mi sembra estremamente affascinante come in un solo sguardo l’occhio dello strumento artificiale, a differenza del nostro, ci metta tutti sullo stesso piano.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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