La pioggia e le temperature non hanno giocato a favore dei numeri, ma la selezione è quella di una grande direzione. Nel finesettimana appena trascorso a farla da leoni sono stati senza dubbio il film francese Populaire e il cinese 1942.
Il primo, che porta la firma di Regis Roinsard, sfrutta l’onda post The Artist. Ambientato alla fine degli Anni Cinquanta, racconta la scalata al successo di una aspirante dattilografa. Di gusto nazional-popolare, Populaire è piacevole ma risulta una pallida versione di un film americano dell’epoca. Pallido in senso letterale: la fotografia, invece di enfatizzare la brillantezza del VistaVision Technicolor, ne offre una tetra, ingiallita versione con un protagonista senza physique du rôle, la cui presenza risulta quasi irritante, e un’attrice principale senza l’allure che richiederebbe la parte.
Sulle note del Cha cha cha della segretaria e altre perle di genere (colonna sonora Sony da non sottovalutare), citazioni dei più noti classici doneniani e berkeleyani (su tutti il Think Pink di Kay Thompson in Cenerentola a Parigi e l’I’ve Gotta Hear That Beat di Ann Miller in Small Town Girl) la protagonista pubblicizza una macchina da scrivere con una scenografia di specchi dorati Ung Drill Ikea. L’opera riprende anche una lunga tradizione di omaggio a un certo filone cinematografico che in Francia vede il suo capostipite in Jacques Demy (Les Parapluies de Cherbourg, Les Demoiselles de Rochefort).
1942 di Feng Xiaogang è attualmente in cima alla lista dei papabili vincitori. È girato egregiamente, ineccepibile dal punto di vista tecnico e ha una sceneggiatura di ferro. Con un cast eccezionale, tra cui il premio Oscar Adrien Brody e Tim Robbins, racconta le conseguenze della carestia cinese del 1942 per la popolazione dello Henan, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale e dei conseguenti sconvolgimenti politici nello scacchiere mondiale. Un macigno straziante, un capolavoro.
In concorso anche Larry Clark. Lui ormai non gira più film. Cambia solo titolo allo stesso (questa volta sceglie Marfa Girl) e lo ripropone senza varianti, coi soliti adolescenti ninfomani appestati di malattie veneree, senza prospettive utili e per concludere ci rifila anche un sermone moralista che, nell’economia della narrazione, assume connotazioni quasi comiche. Ormai l’alunno Korine vola a ben altre altezze in fatto di fantasiose aberrazioni non-sense.
Nella sezione CinemaXXI è d’obbligo avvisare la popolazione dei possibili effetti collaterali dell’indiano Il Regno delle Carte (in sala per la première con un cast supercool di semidivinità nazionali): impossibile da seguire anche per il più stoico dei cinefili.
Complice la crisi e il maltempo, effettivamente sembra che al festival quest’anno ci siano meno presenze. Detto questo, vanno fatte alcune considerazioni. Ad esempio, i bambini di Alice nella Città che si vedevano scorrazzare tra i corridoi dell’Auditorium, dannazione dei fabbri chiamati spesso a liberare i loro ditini dai quadratini delle panche di legno del foyer, ora si fermano nell’area deputata all’ingresso del Villaggio del Cinema. Dunque loro non ci sono più. Fortunatamente. L’eterogeneità che decretava l’essenza ibrida del Festival e gli donava una certa aria da Sagra del Cinema è diventata una folla di giovani di fascia compresa tra 19 e 40 anni, con un notevole incremento di universitari e stranieri. In sala stampa non c’è più la confusione goliardica e canzonatoria delle precedenti edizioni e, nonostante i tanti problemi logistici come la disorganizzazione nelle proiezioni miste o i cambiamenti di programma dell’ultimo minuto, recuperare un film perso è una cosa agevole per tutti.
Gloria Satta sul Messaggero del 10 novembre ha così esordito presentando l’evento: “Festival di Roma, settima edizione, anno primo dell’era Müller“, con un evidente sottinteso, ma dalle parole del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, intervistato ieri da Festival Tube, il canale ufficiale della kermesse, non sembra che la riconferma del direttore artistico per la prossima edizione sia così scontata. Bisogna capire quale tipo di politica verrà applicata. Se cioè i romani vogliono una festa solo per loro oppure un Festival tenuto in considerazione nel calendario degli appuntamenti cinematografici internazionali. Diciamo solo che molti media stranieri, primo fra tutti l’Hollywood Reporter, sono grandi sostenitori del Festival di Muller e delle potenzialità della posizione strategica che rappresenta Roma.
Per trarre delle conclusioni è ancora troppo presto. Bisognerà attendere sabato, quando a Festival concluso si potrà ragionare, dati alla mano.
Federica Polidoro
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