Io (Alberto Garutti), che parlo con me usando l’altro come specchio riflettente e deformante
“Il gioco è questo: tu mi chiedi, poi mi ascolti, non registri e non prendi appunti, poi ci pensi su per conto tuo. Vai a leggere un mio testo dove ho già detto tutto, o quasi, e se vuoi mi citi. Poi scrivi qualcosa che sia tuo e io ti (mi, ci, vi) leggerò”. Sono le parole di Alberto Garutti in risposta alla richiesta di una intervista, in occasione della mostra sua e dei suoi “allievi” a Milano. Ecco cosa ne è uscito.
“Io e te potremmo essere una mostra, proprio adesso”, dici. Skype ci mette in relazione usando tutta la forza della Silicon Valley. Il suo corpo enorme è invisibile, come le relazioni su cui si fonda, che gli hanno dato vita e ora ne rafforzano il senso. Ci fa incontrare, qui e ora, in una voce e in un’immagine che muove le labbra, gli occhi, perfino le braccia. Io per te e tu per me. Sei stanco, ti scusi.
La mostra che siamo prosegue e la tua arte – quella di Alberto Garutti – da affrontare ora è quella dell’insegnamento. “Insegnare l’arte è in realtà l’arte d’insegnare”, mi dici: lo fai a modo tuo, con le tue parole, ma io le odo a modo mio. Sei tu a impormi questa interpretazione, questo dialogo a distanza, in differita e quasi alla pari. Ti avevo chiesto un’intervista ma questo dialogo è per te un bene da preservare: nelle tue classi non riversi nozioni dall’alto ma cerchi di creare un clima grazie al quale la lezione si auto-generi. Con il dialogo Socrate mira a far partorire la verità ai suoi commensali, amici, discepoli.
“Penso che l’arte non sia insegnabile e credo che soltanto gli stupidi si convincono di poter insegnare come fare un’opera d’arte”, dici. Eppure il sistema ci prova sempre. Da sempre. Non ha capito una cosa fondamentale, secondo te: la tecnica viene dopo la sensibilità, che viene prima anche di tutte le motivazioni puerili che portano un giovane a decidere di fare l’artista. È tutto biografismo inutile, quello. Va scippato, estrapolato, riconosciuto e bruciato sull’altare dello sguardo. Io voglio “annichilirlo”, mi dici. Dobbiamo recuperare, e far recuperare, lo sguardo. Tu non lo dici così, ma io ti ascolto, poi leggo il tuo scritto che c’è in rete (Appunti per una teoria) e giungo ad alcune conclusioni. L’arte d’insegnare non è insegnare l’arte ma portare al grado zero, destrutturare, decostruire. Almeno sessanta giovani artisti (quelli esposti nella mostra Fuoriclasse) te ne sono grati. Saranno tuoi epigoni? No, perché ognuno di loro avrà trovato la propria via verso la realtà. Ma cos’è la realtà? Azzardiamo una definizione: è una forma dietro la quale vi è un mondo di relazioni. Tutta la realtà è tale perché è fondata sulle relazioni. Quel che vediamo e accettiamo come un dato finito è invece il risultato di un processo di sedimentazione continua, infinita ma determinata.
Ti interessa davvero la questione dello sguardo (ma non in senso duchampiano, e vedremo il perché), a partire da essa ribalti tutti i ruoli: l’artista diventa “curatore della realtà”, lo spettatore diventa committente, l’arte diventa regia della realtà. Non è il piacere della distruzione che cerchi, ma l’eccitamento della ricostruzione che parte dalla scoperta di ciò che sta oltre le colonne d’Ercole, oltre quelle mura inespugnabili del museo a cui hai deciso di dare un assalto permanente nel 1994, con l’opera per Fabrica (frazione di Peccioli). La tua è una rivoluzione copernicana, che toglie dal centro del sistema l’opera e vi mette lo sguardo. Non siate ingenui, lettori: non è come dire che l’arte è negli occhi dello spettatore, o forse è proprio così. Ma prima, l’artista, che è il “primo spettatore”, deve creare una forma.
La forma è la prima cosa! Quasi mi assali quando la chiamo in campo. Ma non è un rimprovero, bensì entusiasmo: parliamo di qualcosa che ti avvince. La forma è tutto, è l’alfa e l’omega. È il punto di arrivo e di ripartenza. Mi fai l’esempio del tuo lavoro sui cani di Trivero, per la Fondazione Zegna. Alla fine capisco che ti serve la forma per fare il tuo movimento di andata e ritorno: dal reale all’arte e dall’arte al reale. Ci torneremo, ma adesso diciamo chiaramente, una volta per tutte, che senza la forma l’arte è soltanto populismo (quanto detesti questa parola, lo sento nel tuo tono di voce che immediatamente è anche il tuo tono emotivo). È il populismo di un’arte relazionale che abusa della tua pazienza perché la fa troppo facile: “mette su” un banchetto, invita gli amici oppure filma una famiglia di extracomunitari e poi spaccia questa soluzione visiva come una nuova corrente estetica. Tu non lo dici così, ma chiami le cose con il loro nome e – siccome la polemica non ti interessa – passi oltre.
Citi, come altra pericolosa deriva, quegli artisti che fanno arte pubblica occupando spazi cittadini con opere che non si mettono in relazione con le storie del luogo, città o paesaggio naturale che sia. Quegli artisti non vogliono capire davvero il territorio nel quale operano, gli preme innanzitutto lasciare in esso un segno del loro passaggio. Tu sei severo con loro. L’accusa è quella di avere un “ego smisurato”. Mi viene in mente il Piccolo Principe di Saint-Exupéry quando descrive il vanitoso: gli basta sentirsi adulato, non importa se chi lo celebra crede o meno a quel che dice. Anche il re senza sudditi funziona così. Con domande ingenue il Piccolo principe svela i meccanismi dell’ego (e i mali del mondo) e ce li fa scoprire come altrettante malattie dello sguardo. Di uno sguardo che non vede il reale ma le proiezioni di un sé che risulta essere irreale perché è irrelato, privo di relazioni con l’altro. Per te quegli artisti sono un po’ così. I pianeti su cui questi malati abitano sono inesorabilmente e metaforicamente vuoti. Anche il Piccolo principe vive in solitudine, ma a differenza degli altri decide di partire, di uscire dalla sua casa-museo (casa che diventa museo nel momento in cui protegge la rosa sotto una teca) per andare verso gli altri e indagarli. È quello che fai tu, ma tu sei tutt’altro che ingenuo…
Definisci il tuo procedere artistico come una “tattica machiavellica”, e lo fai con un certo orgoglio. L’astuzia, l’escamotage e la manipolazione ti piacciono perché ti portano al reale. Tutto vale, se ti porta al reale. Ancora l’esempio di Trivero viene in soccorso: per raggiungere i cani degli abitanti del paese usi i bambini delle scuole. Loro ti fanno una mappatura completa e sono le chiavi di accesso che ti aprono le porte delle famiglie-mondi di Trivero. Tu poi farai ritratti scultorei dei cani delle famiglie (che sono la forma) e li monterai su panchine destinate a spazi pubblici, sapendo che attiveranno riconoscimenti, narrazioni, memorie. Sapendo che l’opera creerà a sua volta ulteriori relazioni, diluendosi (senza dissolversi) nel reale da cui proviene. Ecco il movimento di andata e ritorno.
La via giusta è quella che ti porta alla radice delle cose, il mondo della tua “vera committenza”: i cittadini (è politica questa). Sono loro che devono raccontarti come stanno le cose, quali legami hanno con il luogo e come il reale appartiene loro. Nella sua pièce Le mosche, Jean-Paul Sartre, filosofo dell’esistenzialismo, modella il suo Oreste (figlio di Agamennone, re dei greci che distruggono Troia) come colui che è senza realtà (senza “peso”, dirà Sartre) perché non ha contatto con la sua città. Corinto è la città a cui egli sa di appartenere di diritto e alla quale è destinato (nel senso di destinazione, esser diretto verso). Oreste alla fine uccide la madre e l’usurpatore del trono paterno, non per vendetta ma per entrare nella realtà dalla quale è stato espulso in infanzia da un esilio forzato che lo ha privato di radici, tranciando di netto tutte quelle storie familiari e locali che gli permettevano di essere reale (parola che nel suo caso, e forse non soltanto nel suo, mantiene il significato di autentico e di regale). Quell’Oreste sei tu, Alberto G. (ti chiamo come Zavattini-De Sica chiamano il loro Umberto D., film-personaggio con cui il cinema nega lo spettacolo e diventa (neo)realista), che vai in cerca non della tua forma ma di quella dei luoghi. Per trovare queste forme devi usare con arguzia la tua Realpolitik; ti è indispensabile per raggiungere “le informazioni”, come le chiami assumendo il tono freddo e distaccato di un biologo.
Quando le cose sembrano assumere una piega emotiva, tu mostri il tuo lato machiavellico, distaccato. L’arte deve arrivare alla realtà, non alle singole storie o persone. Qui non si giudica né si assiste, qui si analizza. Alla fine tu metterai in opera un “sistema di rilevazione-rivelazione puro”: come nel tuo lavoro a Gent, dove le luci dei lampioni sono collegati al reparto maternità e vibrano a ogni nuova nascita. Dedichi sempre l’opera a qualcuno: questa volta ai nuovi nati della giornata. Non è buonismo ma fredda determinazione: ti serve per “dire” a cosa stai mirando, a quale forma noi, con quello “sguardo auratico” di cui cerchi rifornirci, potremo prestare attenzione arrivando così al nocciolo del reale, la relazione. Quella tra chi guarda e i nuovi nati, tra loro e il mondo reale a cui apparterranno, tra la forma dell’opera e il tema della natività che segna la nostra civiltà.
La realtà è la forma concreta che assumono le relazioni. “L’arte è dappertutto”, scrivi testualmente. Qui devo essere pedissequo, devo adeguare il mio pensiero a questa roccia che mi sta davanti. È il momento di chiamare in causa (davanti al tribunale che gli abbiamo preparato) Marcel Duchamp, uno dei tuoi interlocutori a distanza. Lui porta gli oggetti nel museo per dare loro un senso inedito, il senso dell’arte. Questo senso è anche una direzione di marcia: quella che prenderà l’arte a venire, dopo il suo gesto.
Ma “gli oggetti non vogliono più stare nel museo, vogliono uscire”, dici tu, e qui ti cito a memoria, traendo la frase dalla nostra conversazione tardo-serale. Poi precisi che è la realtà stessa che porta l’arte fuori dal museo, in un’epoca in cui tutto diventa pubblico: dal sesso alla privacy. La realtà diventa liquida e l’opera perde l’aura. Gli oggetti possono anche essere ospitati nel museo ma non possono vivere in esso, non più di quanto un leone o un’antilope potrebbero vivere dentro una gabbia. Questa sarà la sfida che presto dovrai ingaggiare al PAC di Milano. Duchamp invece gli oggetti li prende dallo stato brado e li pone in cattività, li fagocita nel museo per dare loro un senso che è lui stesso a costruire con uno sforzo da artista-demiurgo. Tu, al contrario, apri al gabbia e li fai uscire per poi analizzarne il grado di realtà e dare loro il proprio senso.
A questo punto, ci sarebbe un altro personaggio da chiamare sulla scena di questa nostra (rap)presentazione, ma tu non lo citi e io non assumerò questa responsabilità a così poche righe dalla fine di questo scritto: Joseph Beuys. Invece termino con parole tue, che voglio far mie: “Noi siamo musei ambulanti e dobbiamo assumerci la responsabilità dello sguardo”. Mi sembra di toccare il tuo pensiero, qui: forse questo vuol dire che sono d’accordo con te o forse vuol dire di più. Infatti mi tocca, mi com-muove. E mi turba anche, dandomi una responsabilità che sarebbe più facile non avere. Io, tu, noi: custodi del senso delle cose.
Alberto Garutti e/o Nicola Davide Angerame
Milano // fino al 3 febbraio 2013
Alberto Garutti – Didascalia
a cura di Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist
PAC
Via Palestro 14
www.comune.milano.it/pac
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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