Jaume Plensa. Nascosto in un pianoforte
A tu per tu con Jaume Plensa, che racconta la genesi dell’opera che ha realizzato per il costruendo Museo del Violino di Cremona, suo primo intervento pubblico in Italia. E il suo rapporto con la musica: quando bambino si rifugiava dentro un pianoforte...
Jaume Plensa a Cremona: piazza insolita per un big della scultura contemporanea. Come ti sei rapportato con il museo che sta nascendo? E il contesto in cui hai lavorato come ti ha condizionato?
Giovanni Arvedi [imprenditore, finanziatore del Museo del Violino, N.d.R.] mi ha chiesto un’opera, inizialmente, per la piazza davanti al museo. Quando ho visitato il luogo e ho visto il cortile interno, però, ho pensato fosse più vicina questa soluzione al mio tipo di lavoro, che è più intimo. E anche perché guardando al palazzo mi è sembrato che questo cortile ne fosse un po’ il cuore, e il mio intervento voleva arrivare alla rappresentazione della musica come vibrazione del corpo; seguendo questa idea che la musica, così com’é strutturata, abbia origine come dall’espansione del nostro suono naturale.
Parli del corpo umano quasi fosse la cassa di risonanza di un violino. Eppure la posa che hai scelto, in questo come in altri lavori, è più introspettiva: un uomo piegato su se stesso non sembra granché comunicativo. Sembra chiuso.
Lavoro molto con questa posizione, quasi fetale: questo essere umano ripiegato su se stesso mi piace perché enfatizza il mio e nostro cammino interiore; e mi sembrava che in questo caso, affrontando il tema della musica, fosse indicata. Se vai a fare esami all’ospedale ti capita di scoprire con stupore il suono del tuo corpo: quello del sangue che scorre nelle vene, che ricorda il vento; e poi il battito del cuore. Ed è di una bellezza, ma anche di una fragilità, meravigliose: perché puoi respirare musica, ma non puoi afferrarla, non puoi tagliarne un pezzo. La mia scultura trasmette questo: è un fantasma, un’aura di energia, una presenza.
Sei un “consumatore” di musica? Oppure hai affrontato il tema che ti è stato chiesto in modo totalmente libero dal bagaglio della tua esperienza quotidiana?
Non sono un tipo molto “musicale”, ho lavorato più che altro ispirato dalle vibrazioni della musica. Ho un ricordo nitido di quando ero bambino: in casa avevamo un pianoforte verticale, lo suonava mio padre, che aveva nel mobile due ante che permettevano di vederne la meccanica. Quando ero molto piccolo e mi sgridavano mi nascondevo lì dentro: a volte mio padre non sapeva dove fossi e si metteva a suonare. Non potrò mai dimenticare la vibrazione, completa, del mio corpo insieme allo strumento.
Non è la prima volta che ti misuri con un’opera pubblica, anzi: i tuoi lavori più noti e apprezzati sono proprio quelli calati in contesti urbani. Come affronti sfide di questo genere?
Quando sei in un contesto pubblico è come se finissi un’opera in realtà cominciata da altri, come se mettessi l’ultima pennellata a un quadro che già esisteva. Credo che sia una responsabilità enorme, perché entri direttamente nella memoria della collettività; ma che sia qualcosa che stimola molto, oggi, l’artista. Negli spazi pubblici abbiamo avuto ultimamente diversi eccessi da parte degli architetti, con creazioni dal taglio troppo commemorativo; in quei contesti l’artista può operare diversamente, concentrandosi sulla fragilità, su come passa il profumo di una società, su tutte le cose di cui l’architettura non può parlare. E che rendono il dialogo tra le due discipline interessantissimo.
Forse troppo. Se è vero che spesso trovi architetti che sembrano voler fare gli artisti e viceversa…
A Chicago Kapoor ha fatto quest’opera, Cloud; e proprio di fianco c’è un mio intervento: a guardarli potresti anche dire che si tratti di architettura, giusto? E invece no, perché l’architettura ha una funzione, cosa che l’arte non ha; ed è questo che la rende importante. Non serve a nulla, grazie a Dio: ed è per questo che è importante. Per il nostro cuore.
La scultura non è un linguaggio semplice, oggi. Forse perché poco “veloce” e decisamente meno economico rispetto ad altri media: pensiamo solo alla fotografia. In questo è un po’ sorella della musica classica, se vogliamo: alle prese con un futuro difficile. Come vedi quello della tua disciplina?
La scultura è forse la forma primigenia di creazione artistica, perché è molto collegata al corpo, alla fisicità. E credo che per questo abbia un futuro straordinario: perché finché avremo un peso, un volume, una forma, allora avremo qualcuno che lavorerà nella plastica, cercherà di creare un dialogo con il suo e nostro corpo. Per questo la scultura ha la capacità di reintrodurre nell’arte il concetto di spiritualità, di fragilità. E ha un grande futuro davanti a sé.
Nonostante i problemi pratici? Dati dai costi certo, ma anche da una certa perdita di manualità: per cui mancano gli scultori, ma mancano anche i laboratori artigiani, chi effettua le fusioni…
Pensare che ci siano meno scultori a causa di problemi pratici è un errore: si tratta di una questione di attitudine. La scultura può parlare solo in astratto, della relazione tra te e la tua spiritualità, la tua profondità. Se siamo pochissimi, a fare scultura, la questione è solo concettuale.
Francesco Sala
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