Dal sondaggio condotto su scala europea dall’Eurobarometro nel 2007, risulta che gli italiani sono tra i popoli che attribuiscono alla cultura una maggiore importanza. Ma di fronte alla prospettiva di uno smantellamento del sistema culturale, punto di approdo forse definitivo di una triste sequenza di tagli e mortificazioni, e più in generale di fronte al peso irrilevante della cultura nell’agenda della politica economica del Paese e all’attenzione sciatta e superficiale che al tema riservano tutti i media, rispondono con indifferenza.
C’è un’unica soluzione logica a questa contraddizione: che la cultura, per gli italiani, non sia un reale motivo di orgoglio ma un alibi, nel migliore dei casi un esercizio d’ipocrisia. E questo non vale solo per l’Italiano Medio, quello che risponde ai sondaggi, ma per le nostre stesse istituzioni, che nei momenti di rappresentanza sanno attingere a piene mani dalla retorica della cultura millenaria, ma che all’atto pratico la trattano come l’ultima ruota del carro. Prese come sono in questa stucchevole retorica occasionale e auto-celebrativa, non possono peraltro accorgersi della lenta ma inesorabile erosione di credibilità che la nostra identità culturale subisce nel mondo e che siamo proprio noi ad alimentare.
Con la nostra ossessione nel rievocare solo i fasti passati, trasmettiamo un inequivocabile messaggio: il nostro passato è migliore del presente. E questo vale anche per il passato prossimo, per quel made in Italy che non sarebbe mai potuto nascere senza la cultura che gli sta dietro, e che si alimenta di marchi che, quando va bene, hanno trent’anni di vita alle spalle. Le alternative che rimangono alla cultura nel futuro prossimo sono dunque due, non mutualmente esclusive ma intermittenti: l’indifferenza più totale e la strumentalizzazione più becera.
L’unica soluzione praticabile è lavorare su contesti circoscritti nei quali sia possibile far crescere le condizioni per un modello di sviluppo diverso, nel quale la cultura abbia un senso che ha a che fare, allo stesso tempo, con la vita quotidiana e con l’economia delle comunità locali, così come con la circolazione delle idee e delle esperienze su scala globale. Ricreare cioè delle micro-Italie che siano all’altezza del potenziale del nostro Paese. Non con i soldi pubblici, ma con la capacità di attrarre investimenti e talenti.
Pier Luigi Sacco
docente di economia della cultura – università iulm di milano
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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