So Nineties Biennale (di Architettura)
Dopo essersi occupato della piccola mostra belliniana di Rimini, l’Osservatorio Mostre e Musei risale la costa adriatica e si concentra su un evento di tutt’altro carattere e ben più ampie dimensioni: la Biennale di Architettura. Che, in questa edizione, non osa e guarda indietro, più che avanti.
Per esprimere un parere sulla 13. Biennale di Architettura a Venezia – cioè su una mostra per sua natura sperimentale e tematica – è bene iniziare dal titolo, Common Ground, e dal suo curatore, David Chipperfield. Nella breve introduzione ai saggi raccolti all’interno del critical reading edito da Marsilio come complemento al catalogo, Chipperfield dichiara: “The ambition of the biennale is to emphasize the existence of an architectural culture, made up not just of singular talents, enthusiasms and haphazard moments of creativity but of a diverse complexity of ideas and research united in a common and continuous history, common ambitions, common predicaments and shared ideals”.
Le scelte curatoriali di questa mostra sono cioè dichiaratamente costruite su un richiamo alla verità del cantiere e alla pratica dell’architettura, e ancora ai problemi della ricezione e del riscontro sociale; su un’enunciazione di antiretorica, come risposta alle derive dell’archistar system. Ma quanto è riuscito questo tentativo di rappel à l’ordre? Fino a che punto ha saputo rispondere alla vocazione delle Biennali, di funzionare come vetrina della ricerca più lungimirante, di mettere sul tavolo della critica architettonica temi dirompenti?
Quel che si potrà vedere ancora fino al 25 novembre, nei padiglioni nazionali dei Giardini e lungo le navate dell’Arsenale, comunica tendenzialmente un’idea circoscritta e conservatrice dell’architettura: tutto sommato, un panorama poco omogeneo e – a dispetto dei buoni propositi – popolato da molti soliti nomi, selezionati magari tra quelli che nell’ultimo decennio hanno conosciuto una fortuna critica più discendente.
Ora, un giudizio come questo non è immune da una personale opinione rispetto al ruolo che la critica architettonica dovrebbe assumere; ed è bene precisare che David Chipperfield è un grande disegnatore di architettura, un autore che ha prodotto esempi molto alti di intelligenza progettuale e sensibilità urbanistica, con un segno elegante, minimo e monumentale insieme. Ma in una Biennale che si propone il superamento delle individualità architettoniche, farebbe piacere incontrare chi ha esplorato i metodi della progettazione partecipativa o della programmazione comune. A essere presente è invece la generazione di maestri che ha saputo riportare l’attenzione sui fondamentali dell’architettura, sulla sensibilità verso il paesaggio, un contestualismo ispirato che ha comunicato amore per il dettaglio e il cantiere, ma che lo ha fatto ormai più di vent’anni fa, inseguendo ancora un’idea dell’architetto proprio come individualità artistica, in qualche modo artigiana.
Il polso di questa Biennale che non osa lo dà anzitutto il suo Leone d’Oro, assegnato al Padiglione Giapponese Home-for-All: una folla di plastici, montati su tronchi corrosi dal sale, illustra il progetto per un nuovo centro di aggregazione, sviluppato nell’arco di sette mesi insieme alla comunità locale di Rikuzentakata, città rasa al suolo dallo tsunami del marzo 2011. Questa Biennale premia cioè l’interpretazione più letterale, quasi didascalica, del tema assegnato, e il premio va a un gruppo coordinato da Toyo Ito, che a settantuno anni è già da tempo autore di riferimento, non solo per l’architettura giapponese. Mentre il Leone d’Argento, dedicato agli studi emergenti, è andato agli irlandesi Grafton Architects, attivi sin dai primi Anni Novanta: l’omaggio a un omaggio alla storia dell’architettura, cioè al loro progetto per il nuovo campus universitario di Lima, una dichiarata rivisitazione dell’opera, fieramente modernista, di Paulo Mendes de Rocha.
Sempre al Padiglione Centrale ci sono poi casi come l’operazione vintage delle Piranesi Variations, cioè un esercizio di composizione sul Campo Marzio piranesiano, che – e si tratta nientemeno che di Peter Eisenman – rifà oggi la Roma interrotta del 1978, senza neanche citare Roma interrotta. Mentre significativamente gli OMA si sfilano con una retrospettiva un po’ innocua dei grandi progetti infrastrutturali prodotti in giro per il mondo dai tecnici anonimi delle organizzazioni municipali.
All’Arsenale invece si vedono anche alcuni degli interventi più efficaci e meglio allestiti, come la riflessione proposta da Herzog & de Meuron sul loro progetto per l’Elbphilarmonie – descritta dai grossi plastici in mousse sospesi al centro dell’aula – e sull’accesissimo dibattito innescato dal progetto stesso, con le due pareti tappezzate di gigantografie che riproducono l’eco delle polemiche riportate dai media e dalla carta stampata. Oppure la Wall House di Anupama Kundoo, ricostruita in scala reale e nei materiali effettivi all’interno della mostra, dove è tangibile la ricerca dell’architetto indiano sulle istanze di un’urbanizzazione sostenibile e sulla maniera di realizzarla in termini di grandi numeri.
Superato il Padiglione Italiano – con un confronto meno lusinghiero del voluto, tra l’Ivrea di Olivetti e la nuova committenza manifatturiera del Paese – il percorso tra le Corderie e le Artiglierie si conclude con l’omaggio al Leone d’Oro alla Carriera, Álvaro Siza Vieira. Alla sua installazione se ne affiancano altre, degli autori che meglio rappresentazione la precisa, riconoscibile declinazione dell’architettura per cui ha optato questa Biennale.
Nello spazio appartato dei giardini che si affacciano sulla vasca dell’Arsenale, c’è la combinazione poetica di muri rossi, ciechi e deviati ad arte dello stesso Siza, attorno ai grossi tronchi di due platani secolari, e niente di più; a pochi metri il puro esercizio di composizione sul tema della finestra, montata contro il paesaggio di Venezia, da Eduardo Souto de Moura. Dentro a una torretta adattata a sala di proiezione, girano senza sosta le burbere dichiarazioni di poetica di un autorevole lirico dell’architettura come Peter Zumthor. Coi modelli tra le mani, la barba bianca, mentre passeggia nel capolavoro minimale del suo studio di Haldenstein, Zumthor sentenzia; è la Biennale di Venezia del 2012, il documentario lo firma Wim Wenders.
Dario Donetti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati