Destino dell’ironia
Cosa accade quando l’ironia che è stata alla base di gran parte dei movimenti d’avanguardia del Novecento diviene una formula? Cosa accade quando di essa non resta che l’apparenza, l’involucro o il solo nome, senza la pronuncia del quale non sapremmo mai se si tratta veramente di ironia o di qualcos’altro?
Il problema è: che tipo di ironia troviamo quando in molte opere d’arte ci viene detto che – trattandosi di remake, di citazioni, di revival, di “dissacrazioni” ecc. – in esse si tratta soltanto di leggere l’aspetto ironico, dal momento che la semplice citazione non giustifica il valore dell’opera? In questo caso ci troviamo di fronte a un’ironia sterilizzata, svuotata della sua carica demistificatoria, neutralizzata della potenza critica.
Questo nuovo volto dell’ironia assolve una funzione vicaria: quella di supplire all’assenza di significato. Non è più l’ironia calda di Socrate o l’ironia fredda di Warhol che si afferma spiazzando lo spettatore, ma un’ironia resa docile e utilizzabile come packaging dell’opera. In molta arte di oggi l’inflazione dell’ironia ha preso il posto del giudizio di gusto. In assenza di un valore estetico condiviso, si ricorre a essa.
Quest’ironia non è relazionale, non è dialettica, assorbe tutto e non rifrange alcun segno, è autoreferenziale. Autonoma da qualsiasi rapporto, non si scambia più con il reale, ma solo con se stessa. Il conformismo ironico è quello irrigidito nella propria apparenza, è la noia dell’eterno ritorno del sempre uguale. L’ironia conformista non provoca il riso ma lo riproduce, come accade con le risate fuori campo delle fiction televisive che indicano il momento in cui ridere. Stessa cosa per le opere di molti artisti, dove il gesto che si vuole ironico anticipa lo spettatore, al quale non resta altra funzione nel rapporto con l’opera che quella del riconoscimento.
Paradossalmente tutto ciò porta l’oggetto d’arte a non aver più alcun bisogno dello spettatore, perché all’immagine o all’oggetto (feticcio sostituto di qualcosa che dovrebbe indicare che c’è dell’arte) è sufficiente avere la formula e non la forma, il modello e non l’originale, la simulazione e non la realtà. La funzione dello sguardo viene a cadere a vantaggio della sola furfanteria vanagloriosa dell’autocompiacimento ironico.
È in tale scenario che molta arte “contemporanea” è autoreferenziale e dunque, come da sponde diverse dicono Virilio e Baudrillard, è “contemporanea solo di se stessa”.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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