Douglas Rushkoff e l’importanza del codice sorgente
“Programma o sarai programmato”. È questo il monito lanciato dallo studioso americano Douglas Rushkoff, autore di un libello agile e preciso che mette in guardia dai rischi di un uso poco consapevole della tecnologia. In occasione della sua uscita italiana, per i tipi di Postmedia, abbiamo intervistato l’autore. Parlando di cultura, tecnologia, e anche arte.
Il titolo del tuo libro, Programma o sarai programmato, suona come un allarme. Un ultimatum da cui sembra dipendere il nostro futuro. Quali sono i più grandi pericoli cui andiamo incontro se non prendiamo il controllo?
Semplicemente, ciò che stiamo programmando ora è il nostro futuro. Nelle tecnologie che costruiamo è “incorporato” il mondo che verrà, e se non si è in grado di partecipare a questo processo, non resta che sedersi e fidarsi dei banchieri o di chiunque altro stia lavorando per fabbricare la realtà del futuro. Il software e i sistemi operativi che vengono creati oggi sono lo scenario in cui gli esseri umani interagiranno e faranno affari domani.
Sapremo almeno come funzionano? Ci ricorderemo che non sono oggetti “naturali” ma che vengono progettati da persone? È una faccenda molto importante. Non è come saper aggiustare un’automobile; è piuttosto paragonabile al saper guidare un’automobile, o a guardare fuori dal finestrino. Se non sai niente di programmazione, allora sei seduto nel retro della macchina e devi confidare nel fatto che chi guida ti porti dove veramente vuoi andare. E visto chi sta alla guida dell’automobile oggi, io non penso che le cose stiano così.
Cosa ti ha spinto a scrivere questi “dieci comandamenti”? E perché proprio dieci?
Ho scelto il numero dieci perché abbiamo dieci dita. E dieci cifre. Volevo che le persone si ricordassero cosa significa davvero “digitale”: essere produttivi, usare le proprie dita, essere a misura d’uomo, e non far parte di una tecnologia di trasmissione di massa. Gli stessi comandamenti sono un po’ arbitrari, lo ammetto, e avrei sicuramente potuto scriverne altri, ma quelli che ho scelto sono in grado di “coprire” l’intero panorama. Mi piacciono in particolare quelli controintuitivi.
Li ho scritti perché penso che stiamo attraversando un momento di cambiamento molto radicale, come quando l’umanità è passata dalla cultura orale a quella scritta. Allora avevamo i Dieci Comandamenti originali, ed erano uno strumento per far fronte a tutti i cambiamenti che la nuova cultura ci avrebbe portato: le leggi, i contratti, l’astrazione, il concetto di territorio… Essere in grado di scrivere ha cambiato tutto. Essere in grado di programmare è lo stesso per noi oggi. Ma mentre la scrittura ha trasformato la parola di Dio in testo sotto forma di comandamenti, la programmazione trasforma le parole delle persone in azioni. È per questo che dobbiamo scrivere i nostri stessi comandamenti questa volta.
Qual è il livello di alfabetizzazione informatica necessario? Secondo te tutti dovrebbero essere in grado di programmare le proprie macchine?
Dipende dalla persona e da quanto a lungo questa persona vivrà. La maggior parte di noi adulti potrà cavarsela senza saperne molto. Ci sono ancora in giro molti lavori per noi, e la gran parte del mondo che conosciamo è rimasta invariata. Quello che dobbiamo fare tutti però è capire le inclinazioni, le tendenze, delle tecnologie che usiamo. Dobbiamo essere in grado di sviluppare un pensiero critico su questi apparecchi e sui loro programmi, così da non diventare matti usandoli in modo stupido. Se non siamo in grado di capire a cosa serve Facebook (e per cosa invece non è adatto), possiamo letteralmente distruggere le nostre vite, dal punto di vista personale e professionale.
I nostri figli, invece, dovrebbero imparare della programmazione base. Nello stesso modo in cui imparano a leggere e a scrivere, anche se la maggior parte di loro non farà il romanziere. Leggere e scrivere sono ancora abilità fondamentali in un mondo alfabetizzato. La programmazione è il suo equivalente nel mondo digitalizzato.
Molti artisti digitali nel passato hanno cercato di accendere il dibattito sui pericoli di una cultura tecnologica guidata esclusivamente dalle tendenze del mercato. Pensi che l’arte possa ancora agire come forza critica per aumentare la consapevolezza delle persone su questi argomenti?
Sì, sicuramente. Ma l’unico modo in cui l’arte può essere efficace è commentando in maniera diretta la condizione digitale. A volte può avvenire all’interno della realtà elettronica, a volte si può fare restandone fuori di proposito. In ogni caso, devi sapere davvero qualcosa sul mondo digitale persino per capire cosa significa starne fuori. L’ambiente digitale getta un’ombra molto ampia. Starne al di fuori significa conoscerla molto bene.
Gli artisti possono davvero essere coloro che hanno il compito di portare chiarezza su questa materia. Il mercato controlla la tecnologia al momento, e stiamo parlando dell’ambiente mediale più completo e pervasivo che abbiamo conosciuto finora come specie. Siamo davvero a un punto di svolta. Il mercato non aveva mai avuto un “corpo” prima.
Tu programmi? Se sì, in che modo questa attività cambia il tuo punto di vista sulla tecnologia?
Sì, so programmare. Non abbastanza bene per produrre un buon software, ma abbastanza bene per capire la sintassi che regola il mondo digitale. L’effetto che ha su di me riguarda più la mia prospettiva sul mondo in generale che quella sulla tecnologia in sé. Vedo il mondo come un’entità in gran parte “programmata” dagli umani. La mappa a griglia di New York, le leggi della nostra nazione, la disposizione del pavimento al supermercato… Noi viviamo e attraversiamo ogni giorno i “programmi” di altre persone. Si tratta di costruzioni sociali, non di condizioni naturali. Per cui il “codice” è diventato per me un’eccellente metafora per applicare i principi dell’open source al resto del mondo.
Per quanto riguarda la tecnologia, il codice mi ha aiutato a capire che tutto ha uno scopo. La tecnologia digitale ha uno scopo. C’è qualcosa di molto simile al “volere” incorporata in questo obiettivo. Le tecnologie della nostra epoca sono diverse: le genomica, la nanotecnologia, la robotica, l’informatica… Tutte quante vanno avanti senza di noi, si replicano, si auto-migliorano, combattono per sopravvivere.
In Italia scontiamo ancora le conseguenze di un pregiudizio che tende a vedere la scienza e le discipline umanistiche come due ambiti separati. Per questo, molti studenti d’arte o di letteratura sono portati a pensare che la scienza non faccia per loro e si rifiutano di imparare a programmare, o addirittura di frequentare dei corsi di informatica di base. Succede anche negli Stati Uniti?
Sì, in una certa misura succede anche qui. Però oggi spesso i programmatori si considerano artisti. Ci sono fantastiche organizzazioni come Rhizome e Eyebeam, luoghi dove gli artisti e i programmatori possono incontrarsi e fare grandi cose insieme. Pensa ad esempio alla conferenza Seven on Seven che Rhizome organizza ogni anno a New York; guarda che tipo di progetti queste persone riescono a fare se si mettono assieme. Anche il movimento Occupy ha fatto incontrare molta gente.
Oggi è il programmatore a guidare l’artista. Molti artisti ormai sono diventati simili a studiosi o ad archivisti, mentre i programmatori stanno portando davvero l’arte avanti. Sono le persone che sono più consapevoli di quello che sta succedendo quelle nella migliore posizione per commentare la realtà. E se gli artisti non sono in grado di farlo, qualcun altro dovrà fare la vera arte.
Valentina Tanni
Douglas Rushkoff – Programma o sarai programmato. Dieci istruzioni per sopravvivere all’era digitale
Postmedia Books, Milano, 2012
Pagg. 112, € 16
ISBN 9788874900756
www.postmediabooks.it
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati