L’intero sistema di valori culturali, sociali, politici ed economici edificato nell’ultimo trentennio è completamente orientato al conformismo, allo sradicamento a livello collettivo della ribellione come istinto, come risposta. Si è venuta costruendo, nel senso comune, la percezione della ribellione come una reazione sgradevole, stantia: quanto di più lontano dal cool ci possa essere e si possa elaborare. La sostanza è lo scoraggiamento, intensivo e diffuso, di qualunque atteggiamento radicale: “Se ti comporti così saranno guai per te”, “se non ti integri non sarai mai felice”, e così via. Molto meglio allora (molto più cool), nella testa di molti se non di moltissimi appartenenti alla nostra generazione, abbandonarsi alla – e addobbare la – “umiliazione collettiva” di cui ha scritto Giorgio Vasta [1], mascherarla, arricchirla di simulazioni e giochi di specchi, farne il tessuto che sostanzia la nostra vita a breve, medio, lungo termine.
Ciò è connesso con la possibilità stessa di pensare l’alternativa nel momento in cui, da ogni parte e ossessivamente, non si fa che ripetere che soluzioni alternative, molto semplicemente, non esistono (“There Is No Alternative” era il mantra di Margaret Thatcher negli Anni Ottanta). Come scrive David Graeber a questo proposito: “La guerra contro l’immaginazione è l’unica che i capitalisti sono davvero riusciti a vincere” [2].
È chiaro che, in uno scenario del genere, la cultura svolge una funzione decisiva, e decisamente interessante. La cultura, infatti (soprattutto nel nostro Paese, ma non solo), è stata percepita sempre più nel corso dell’ultimo trentennio come un gradevole diversivo da praticare nel tempo libero, una forma particolarmente virtuosa di intrattenimento. Questo processo ha avuto impatti significativi non solo sulla fruizione culturale, ma anche – e forse soprattutto – sui meccanismi di produzione. Di recente, Gian Arturo Ferrari ha giustamente e lucidamente definito “libroidi” i finti romanzi e i finti memoir che infestano gli scaffali di librerie e biblioteche, mescolandosi alla letteratura “vera” e rendendosi di fatto indistinguibile rispetto ad essa [3].
Sempre in tema di narrativa, uno scrittore e un osservatore lucido dei processi culturali che attraversano la contemporaneità italiana come Giuseppe Genna ha ratificato lo stato delle cose: “Oggi, domenica 20 maggio dell’anno orrendo 2012, constato che Resistere non serve a niente, opera narrativa del migliore tra i prosatori italiani e cioè Walter Siti, edita da RCS Libri, è al 16° posto della classifica riservata agli autori nostrani, classifica che è pubblicata oggi su ‘La Lettura’ del Corriere. La fonte è Nielsen, la rilevazione riguarda i dati di due settimane orsono. Due settimane fa è stato realizzato un lancio promozionale impressionante del libro e dell’autore. Dunque è questo (il 16° posto tra gli italiani, chissà in classifica generale) a cui può giungere attualmente uno dei migliori scrittori italiani viventi. Nessuno perciò deve avere da ridire se non vanno in classifica o ci restano per poco o raggiungono posti ‘bassi’ altri scrittori italiani che scrivono bene (penso a Michele Mari, Antonio Moresco, Tommaso Pincio, Giulio Mozzi, Teresa Ciabatti, Letizia Muratori, Marco Mancassola, Giorgio Vasta e molti molti altri con cui mi scuso per la mancata nominazione, dovuta al fatto che altrimenti stendevo un elenco enorme; con l’eccezione di Aldo Nove e Valeria Parrella, che in classifica ci vanno e ci stanno). L’asticella del salto in alto editoriale è posta definitivamente dal caso Walter Siti. L’entrata in classifica non è dunque più prioritaria. L’opera narrativa si sta avvicinando all’opera poetica, per quanto concerne la sua ricezione collettiva e sociale, diciamo: numerica” [4].
Questo è il quadro, il paradigma che muove il mainstream italiano e occidentale secondo tutte le apparenze. Ce n’è un altro però in gestazione, più difficilmente riconoscibile ma per questo più prezioso: la cultura è l’unico modo di cui disponiamo per comprendere e raccontare il disagio innominabile che ci sta attraversando, e per costruire dei nuovi, migliori noi stessi. A partire proprio dall’insicurezza, dalla precarietà, dalla desolazione in cui viviamo.
Christian Caliandro
[1] G. Vasta, La narrativa dell’umiliazione, “minima&moralia”, 6 dicembre 2011, www.minimaetmoralia.it/?p=5880.
[2] D. Graeber, “Contro il capitalismo kamikaze”, ne La rivoluzione che viene, Manni, San Cesario di Lecce 2012, pp. 175-176.
[3] G. A. Ferrari, Nel mondo degli pseudolibri, “la Repubblica”, 1° aprile 2012.
[4] G. Genna, Il caso Walter Siti e l’asticella editoriale, “Giugenna”, 20 maggio 2012, www.giugenna.com/2012/05/20/il-caso-walter-siti-e-lasticella-editoriale/.
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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