Misurare se stessi con l’accountability
Scontiamo anche in questo campo una pesante arretratezza rispetto ad altri Paesi europei e non. E tendiamo ancora ad avere un’idea di cultura al contempo elitaria e vittimista. È giunta l’ora però di darsi degli obiettivi raggiungibili e di provare a centrarli. Capendo se e come ce l’abbiamo fatta. E soprattutto come centrare i successivi.
Gli elementi necessari in un processo di “rendicontazione” delle proprie attività sono: un pubblico interessato, un principio di responsabilità forte rispetto alle proprie azioni e, ovviamente, la trasparenza. Ma non si può non sottolineare la necessità di una strumentistica fatta di indicatori, dati e ricostruzioni, necessari per dare un quadro reale ed esaustivo di ciò che si sta raccontando, e infine di una regolamentazione più o meno elastica che preveda schemi minimi e meccanismi di controllo e verifica.
Il tema dell’accountability è giunto in Italia relativamente tardi, mentre in altri Paesi (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna) se n’è già ampliamente discusso e si sono elaborati strumenti di utilizzo (come il bilancio sociale e diversi indicatori e standard con cui misurarne la bontà e l’accuratezza) più o meno raffinati ed efficaci. Così si sono sviluppate anche normative e organi di controllo là dove invece per molti versi l’accountability in alcuni Paesi più “arretrati” rimane in mano al “buon cuore” delle aziende o, quantomeno, alla loro intuizione delle enormi potenzialità di marketing che possiede tale strumento, tanto più quando poco regolamentato, inusuale e scarsamente verificato sia nella forma che nel merito.
Una questione che sarebbe interessante porre e successivamente declinare è però più a monte del problema. Fatta salva la necessità che i dati siano riportati in modo realmente trasparente e rispettando certi opportuni standard che ne permettano una valutazione efficace e utile allo scopo stesso, è intuitivo come sia imprescindibile che nel corso di produzione e svolgimento delle attività le azioni, gli scambi, i processi e le transazioni economiche siano in qualche modo monitorati, verificati e misurati così da facilitarne la sintesi e il racconto alla loro conclusione.
In certi settori economici risulta abbastanza facile, nonostante la complessità della materia in sé, in ragione del settore merceologico. Le difficoltà oggettive subentrano quando si parla di cultura e produzione culturale. Qui si fronteggiano in modo forte una difficoltà non recente e una sfera di necessità abbastanza consolidate.
La difficoltà è obiettivamente nel rintracciare indicatori capaci di misurare ciò che per propria natura è spesso intangibile, vago, astratto ed estremamente concettuale, con scarse manifestazioni fenomeniche, in particolare dirette.
Le necessità della sfera culturale sono d’altro canto sotto gli occhi di tutti: l’abitudine all’acritico finanziamento pubblico, la scarsa interrelazione con il mondo delle imprese, la quasi inesistente propensione a investire, il sistema di pensiero orientato a percepire la cultura (spesso, purtroppo, introiettato dagli stessi addetti ai lavori) come anti-economica e produttiva “solo” di contenuti, la scarsa trasparenza e l’eccessiva politicizzazione… solo per citare quelli più evidenti.
Eppure il giro d’affari del settore culturale crea un’occupazione che a livello europeo interessa circa 7 milioni di lavoratori e produce un valore aggiunto solo in Italia pari al 5% del totale nazionale. Basti pensare anche al fatto che la spesa delle famiglie italiane per “cultura e ricreazione”, così come segnalata da Federculture, si è attestata nel 2011 sui 70,9 miliardi di euro, pari al 7,4%, della loro spesa annua complessiva, nonostante la particolare congiuntura economica fatta soprattutto di contrazione dei consumi.
Si rende quindi necessario ragionare su due binari distinti ma destinati a convergere: da un lato l’introduzione di un cambio di mentalità per cui l’attribuzione e l’assunzione di responsabilità chiare e definite tanto in merito alle strategie culturali che in relazione agli obiettivi (non) raggiunti diventino la norma, così come un cambiamento d’approccio in direzione di una mentalità più imprenditoriale e privatistica orientata non alla mera sopravvivenza, ma allo sviluppo vivo e sensibile del settore; dall’altro lato è necessaria anche l’elaborazione di una serie di indicatori che possano realmente permettere di monitorare azioni e prodotti, così da avere strumenti oggettivi di valutazione di efficacia, efficienza ed economicità, per quanto nella consapevolezza delle estreme specificità del settore in questione.
Il primo passo è valutare in modo sereno e costruttivo cosa può essere misurato e a che livello. In altre parole, si potrebbe effettuare una classificazione di massima così articolata:
1. oggetti direttamente misurabili:
a. quantificabili in modo puntuale tramite indicatori appositamente costruiti;
b. non misurabili in modo preciso ma per i quali si può identificare una stima plausibile della portata del fenomeno, racchiudibile in un range numerico che ne dia un ordine di grandezza accurato e ragionevole se pur non una misurazione esatta, insomma degli indicatori tendenziali;
2. oggetti non misurabili direttamente ma in base a criteri, fenomeni connessi, ripercussioni su territorio o settore affini, attività collegate ecc. Esempio di questa categoria potrebbe essere l’effetto sulla qualità della vita di un certo tipo di formazione culturale in un contesto sociale determinato. Non si potrà dare ragionevolmente una misurazione diretta, ma sarà opportuno valutare come si sono evolute da un momento x in poi le attività economiche affini a quel settore, l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro in quel territorio, il livello economico medio, l’andamento dei settori economici connessi e.c. In questo caso è palese che si andranno a cercare quegli oggetti di studio passibili di una misurazione esatta e puntuale, così da non aumentare l’incertezza della misurazione indiretta, di “secondo grado”, che tramite questi si effettua del fenomeno iniziale;
3. oggetti di studio non misurabili né direttamente né indirettamente perché la loro capacità di generare effetti riscontrabili e percepibili è indissolubilmente connessa all’avvenire di altri fenomeni per cui il loro peso anche nel generare determinate conseguenze non può essere quantificato nemmeno come ordine di grandezza. In questi casi l’obiettivo dovrà essere di comprendere se un effetto c’è e in quale direzione esso tende.
Un’articolazione ragionata di categoria di massima similare a queste presentate e il connesso sviluppo di indicatori sono i primi passi per poter pensare di introdurre realmente il tema dell’accountability nel settore culturale senza che questo venga declinato come una semplice narrazione di scenari più o meno vaghi.
Rendere conto delle attività è un momento importante non solo verso l’esterno ma anche rispetto a se stessi: vuol dire confrontarsi con i risultati raggiunti e con il percorso compiuto, comprendere se si è fatto bene e se si poteva fare di meglio. Ragionare su tutto questo “dati alla mano” è il modo più sano per non ricadere in vecchi vizi o in nuovi lassismi acritici; sempre mantenendo però l’onestà intellettuale di comprendere e ammettere che la particolare grandezza e la grande particolarità della cultura stanno proprio nel suo sfumare in contenuti poco quantificabili, perché di valore superiore al semplice numero.
Stefano Monti e Marco Bernabè
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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