Rappresentare la strage
Venerdì 14 dicembre 2012, ore 9.30. Adam Lanza, ventenne problematico, fredda la madre, irrompe nella scuola elementare di Sandy Hook a Newtown, Connecticut, e uccide a sangue freddo venti bambini e sei insegnanti. Poi si suicida. Il surplus specifico di orrore viene dall'età e dal numero delle vittime. Ma l'aderenza, nei modi e nel senso, alla lunga scia di school shooting che insanguinano la storia recente americana è perfetta.
La strage di Newtown gronda orrore come ogni volta capiti che un arbitrio distruttivo scarichi sotto forma di proiettili la sua furia su innocenti. Non si tratta però della manifestazione di un Male assoluto bensì di un orrore “banale”, perché risultante precisa e prevedibile di una serie di fattori legislativi e culturali costanti, gli stessi che scaturirono nel Bath School Disaster del ’27, alla Columbine nel 1999, alla Virginia Tech nel 2007 e in decine di altre occasioni. Sono sintetizzati da un puntuale tweet di Michael Moore: “The way to honor these dead children is to demand strict gun control, free mental health care, and an end to violence as public policy”. La mancata regolamentazione della vendita di armi, per interesse lobbistico o per attaccamento a un principio costituzionale risalente ai tempi del Far West; l’assenza di welfare e assistenza sanitaria pubblica; il darwinismo spietato come fondamento dell’american dream; la violenza della polizia, dei droni e dei marines come diritto all’autodifesa acquisito. Nessuna sorpresa, purtroppo, se un simpleton sofferente di Asperger sottrae pistole e fucili alla madre e stermina una classe.
“Di tutto ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Di tutto il resto si deve parlare, come hanno fatto Michael Moore e molti columnist di area liberal e in modo ancora vago e insufficiente il presidente Obama. Ė necessario ricordare le cause e agire per rimuoverle. Non sono mancati neppure commenti demenziali da parte della Rifle Association e fiancheggiatori sul tono di “servono più armi. Se la maestre fossero state armate, tutto ciò non sarebbe accaduto”.
Le reazioni a un altro massacro che sconvolse l’opinione pubblica mondiale, quello accaduto a Utoya nel luglio 2011 quando l’estremista di destra Andres Breivik uccise 77 giovani laburisti e ne ferì più di duecento nell’annuale campo estivo, furono invece unanimi. Tutti, dal premier Jens Stoltenberg al passante di Oslo fino a parenti e amici delle vittime, ripetevano tra le lacrime che l’unica reazione all’orrore era più socialdemocrazia, più tolleranza, più multiculturalismo. Ogni strage grida vendetta ma la tipologia della vendetta dipende dal grado di civiltà dei popoli. Eppure il massacro di Utoya avrebbe potuto giustificare una risposta irrazionale. A differenza delle stragi americane figlie del proprio milieu, si è trattato di un evento imprevedibile e, a livello simbolico, della manifestazione di un Male assoluto uscito per suppurazione da una nazione apparentemente perfetta, ricca, multiculturale, quasi priva di macro e microcriminalità, dove i politici sono onesti e lo stato sociale funziona. Breivik non era lo strumento, l’esecutore materiale del Dio furibondo che distrugge Sodoma e Gomorra per punirne i peccati, bensì il Dio sadico e imperscrutabile che manda a morte la famiglia del pio Giobbe. Ulteriore potenza simbolica: Utoya, un’isola coperta di foreste tra i fiordi, un paesaggio edenico; la Lega dei Giovani Lavoratori, le giovani promesse della futura Norvegia. Un Eden dentro l’Eden norvegese. Breivik progetta e mette deliberatamente in atto una cacciata dal paradiso terrestre, falcia l’innocenza di una nazione in senso letterale e metaforico. Siamo immersi nel Mito, tra le cose di cui si deve tacere.
Infatti, come dovette trascorrere più di un anno prima che il cinema mostrasse l’impensabile Ground Zero (ne La venticinquesima ora di Spike Lee), così, se si esclude uno squallido (nella forma e nei contenuti) tentativo di sciacallaggio nell’action-istant movie del sedicente Vitalyi Versace, per fortuna mai distribuito, nessuno tra gli artisti e i registi di primo piano ha voluto o saputo rappresentare il massacro di Utoya. È apparso negli spazi istituzionali dell’arte solo quando lo splendido e straziante reportage di Niclas Hammarström ha vinto il secondo premio del World Press Photo Contest. Nonostante l’eccesso di realtà in termini di forza e concentrazione, la realtà cruda dei corpi morti, la più resistente alla spettacolarizzazione, la grammatica delle fotografie ricorda quella delle inquadrature delle serie televisive (si veda per esempio il ragazzo terrorizzato che cerca di mimetizzarsi tra le rocce, potrebbe essere Lost se non fosse un’immane tragedia in atto). Ovvero: il reportage perché un lutto così imponderabile richiede una lunga elaborazione e non può ancora essere drammatizzato; il rimando, forse inconscio, alla forma visiva e narrativa specifica del tempo per cercare una minima familiarizzazione con l’inaffrontabile.
Invece, come detto, degli school shooting si deve parlare e ne hanno ampiamente parlato le arti visive, specialmente il cinema. Il soggetto è stato declinato in differenti forme, dal film d’arte (Elephant, Gus Van Sant, 2003) al documentario agit prop (Bowling for Columbine, Michael Moore, 2002) alle narrazioni standard (Bang Bang, You’re Dead, Zero Day e molti altri) fino a diventare un semplice strumento diegetico al servizio di un discorso altro (Let’s talk about Kevin, Lynne Ramsay, 2011).
La storia dell’iconografia prova che la strage è un soggetto ricorrente nell’arte. “La strage degli innocenti”, come quasi tutti gli episodi tratti dalla Bibbia, dall’agiografia o dalla mitologia, era un tema di repertorio, pronto all’uso per alludere ad altro, più stringente o attuale. Le scene di battaglia, quando anche si vedessero il sangue e le mutilazioni, non potevano prescindere da un certo grado di epica e retorica. Il senso morale davanti al massacro nasce probabilmente con Goya e i suoi Disastri della guerra se ancora pochi decenni prima le incisioni delle ghigliottine rivoluzionarie o dei supplizi dei condannati rappresentavano sì bagni di sangue ma anche lavacri lustrali. Seguiranno le guerre antieroiche del novecento, la Nuova Oggettività e i fotografi di guerra non embedded a mostrare il vero aspetto, atroce e assurdo, dello sterminio.
Si trattava però di forme nuove, aggiornate ai progressi della tecnica e della sensibilità diffusa, di orrori antichi. L’esperienza dello sparatore solitario, dell’individuo che fa fuoco su una concentrazione di individui in un luogo pubblico, senza movente o nell’attuazione di un piano paranoide, comunque al di fuori di ogni struttura, situazione di potere o linea di comando, è un’esperienza recente, esclusiva dell’era democratica. L’arte da sempre cerca forme per rappresentare, elaborare, esorcizzare l’esperienza del Male. Allo stato delle cose sono evidenti l’urgenza di rappresentare stragi come l’ultima in Connecticut nella speranza di scuotere coscienze e creare le condizioni “perché non accada mai più” e la difficoltà che ancora dura per l’uomo nel trattare massacri come quello di Utoya le cui implicazioni sfuggono a una completa padronanza razionale.
Alessandro Ronchi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati