Rendez-vous à Belleville
Fino a pochi anni fa era un quartiere connotato come popolare, all'insegna dell’alto numero di chioschi per la vendita di kebab di tutti i sapori (cucina magrebina, greca e turca). Non ultima la forte immigrazione cinese, che ha segnato l’apertura di trattorie take away, fast food orientali e chincaglierie. Si parla di Belleville, a Parigi, area ancora in parte snobbata dai parigini tout court. Ma hub artistico in pieno fermento e dall’alto tasso di italianità.
Ripercorrendo gli esempi storici di Soho e poi di Chelsea, o ancora dell’East End londinese, la sociologia urbana parla chiaro. Pochi sono infatti gli ingredienti per la trasformazione di un quartiere. Affitti low cost, qualche designer e creativo, bistrot che da alternativi diventano subito radical chic, gay e comunità glbt, qualche parrucchiere giusto, qualche fioraio e inevitabilmente l’arte contemporanea. Si chiama gentrification.
Un intervento di Ben Vautier, realizzato nel 1993 su un muro cieco che si affaccia su place Féhel, sembra essere diventato il manifesto di un rinnovamento culturale che oltrepassa i luoghi comuni. Il faut se méfier des mots (Occorre diffidare delle parole) è così uno statement, una dichiarazione che smentisce lo stereotipo per il quale, fino solo a dieci anni fa, la maggior parte delle persone individuava in questo quartiere (a cavallo tra il XIX e il XX arrondissement) un luogo negletto, privo di potenzialità e possibili sviluppi.
Intorno a Culture rapide, cabaret popolare e luogo d’incontro delle nuove generazioni di creativi (durante l’happy hour, a chi si cimenta nella scrittura di una poesia sul tema del giorno, viene offerto il drink…), si snoda una serie di vie in cui trovano posto atelier, gallerie, librerie e spazi non profit. E in poco meno di tre chilometri quadrati sono circa quindici i luoghi dell’arte a Belleville. “L’atmosfera è molto mediterranea. A volte mi sembra di camminare per le strade di Napoli”, racconta Daniele Balice della galleria Balice Hertling. “Per un italiano a volte è come sentirsi a casa”.
Galleria storicamente pioniera, tra gli spazi dedicati al contemporaneo, a insediarsi proprio qui è stata la Bugada & Cargnel (un tempo si chiamava Galerie Cosmic). Nel 2002, in un decadente garage degli Anni Trenta in rue de l’équerre, è nata una sorta di cappella large size che ospita artisti consolidati, in gran parte francesi ma con alcune eccezioni, per la produzione di progetti che fanno invidia agli indigenti musei italiani. Nella programmazione, alle punte di diamante Annika Larsson, Pierre Bismuth, Julio Le Parc, Wilfrid Almendra e Mat Collishaw, non mancano gli italiani Piero Golia e il più giovane Nico Vascellari.
Altra pioniera, in quello che sempre all’inizio degli Anni Zero era una sorta di deserto culturale in questo lembo urbano parigino, è la Galerie Jocelyn Wolff, in rue Julien Lacroix. “Era il 2003 e cercavo un luogo che fosse centrale, con una vera identità parigina, non borghese, piacevole da vivere, e Belleville – con il suo nuovo centro d’arte Le Plateau – mi sembrava l’ideale per cominciare, con affitti che allora erano modici”, racconta Wolff. Più piccolo rispetto alla sorella Cosmic, il suo spazio espositivo è lasciato alla sperimentazione degli artisti e al possibile sovvertimento, anche strutturale, di pareti, passaggi e arredi. Più indirizzata a seguire proposte di artisti consolidati, recentemente la Galerie Jocelyn Wolff ha allargato gli orizzonti anche ad artisti emergenti. Ma con interventi a tratti discutibili (dal pluri-richiesto Clemens von Wedemeyer all’esordiente Elodie Seguin).
Negli stessi anni, altro trasloco favorevole al rinnovamento del quartiere è stato lo spostamento della sede del FRAC de l’île de France, alias l’attuale Le Plateau al quale accennava Wolff. Voluto dall’associazione non profit Vivre aux Buttes Chaumont, il centro sorge in una tranquilla e anonima piazza tra rue des Alouettes e rue Carducci, vicino a una clinica ospedaliera, una scuola elementare e l’orto urbano di rue Fessart. Oltre a insediarsi in un quartiere popolare, stabilendo un vero dialogo con un pubblico ormai fidelizzato grazie anche alla totale gratuità di tutte le iniziative del programma Antenne, Le Plateau raccoglie una collezione di oltre 900 opere d’arte contemporanea, in parte esposte anche in altri spazi della regione (Théâtre National de la Colline, Parc Culturel de Rentilly, le Mac e le Lieu du Design).
Proseguendo nella piccola e stretta rue Jouye-Rouve, dove il rendez-vous vero per una serata branché è Le Baratin, bistrot frequentatissimo e dalla cucina alternativa, le gallerie sono addirittura quattro, tre delle quali aperte solo a fine 2011. Sono neonate, minuscole, ma tutte ben avviate. In termini di nazionalità – sfatando il luogo comune del patriottismo francese – le gallerie Marcelle Alix, Crèvecoeur, Emmanuel Hervé (a cui va il copyright dell’espressione “prossimità estetica” per questo vicinato) e de Roussan seguono tutte una programmazione in un certo senso identically correct: metà francesi e metà stranieri. Mentre in un paio di questi effervescenti spazi sembra di essere a Berlino piuttosto che a Parigi, tra neoconcettualismo o postminimalismo, gli artisti della Galerie de Roussan, tutti emergenti, si distinguono per una ricerca più secca e decisa, che pare voglia scardinare definitivamente i concetti di forma e contenuto (François Mazabraud, Sandra Aubry e Sébastien Bourg).
Anche rue Ramponeau, parallela di rue de Belleville – da cui il nome del quartiere con il boulevard omonimo -, non può lamentare l’assenza di spazi espositivi. Se la Galerie Samy Abraham appare cool e più indirizzata al design, la collega Balice Hertling s’impone per la peculiarità delle esposizioni. Lo spazio è infatti particolarmente duttile, da atelier nudo e crudo può trasformarsi in white cube a seconda degli interventi. Negli anni si sono passati il testimone Neil Beloufa, Isabelle Cornaro, Luca Frei e Samuele Richardot, alternandosi con l’altra sede della galleria a New York. Sempre nella stessa via, si trovano ancora Castillo/Coralles – Section7books, una libreria con esposizione di stampe d’autore, e Contexts, associazione non profit gestita da artisti che è contemporaneamente un piccolo centro documentale e laboratorio di produzione.
La nuova generazione di galleristi sembra essersi data appuntamento a Belleville, “il quartiere di Parigi che più d’ogni altro ha un’identità cosmopolita”, sostiene Daniele Balice. Dove mediamente gli affitti costano un terzo rispetto al Marais, e che quindi “permettono una programmazione più libera, poiché ci si può permettere di fare un progetto non commerciale”, nota Emmanuel Hervé; dove è facile trovare artigiani per le produzioni degli artisti; e dove, non ultimo, “c’è una vita di quartiere molto vivace e unica, e si ha un vero e proprio senso della comunità”, racconta ancora Balice. Non ci sono però spesso vernissage collettivi (difficile accordarsi in quindici, nonostante il progetto di rete Grand Belleville, anche se è tangibile quello che Wolff definisce “spirito comunitario”), ma le esposizioni si susseguono continuamente con una media di circa sei all’anno per ogni galleria. Tra le frequentazioni: molti gli stranieri e i francesi – cioè quelli della Francia – poiché, a detta di molti, i parigini rive gauche paiono sfortunatamente non gradire ancora kebab ed escargot. Un pubblico che Emmanuel Hervé definisce “appassionato e appassionante”. E se ancora qualche “vecchio collezionista francese pensa che sia troppo lontano venire qui a Belleville”, pungola Balice, “non sono sicuro che si tratti di collezionisti seri”.
Claudio Cravero
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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