Barack Obama, presidente prêt-à-porter
Ce lo vedete un museo italiano festeggiare l’elezione del prossimo Presidente del Consiglio? Scoppierebbe il finimondo. Negli Stati Uniti, invece, è assolutamente normale celebrare il giuramento di Obama. Anche da parte di istituzioni pubbliche e musei privati: merito di un sistema che rende un presidente, per definizione, condiviso dall’intera collettività. Buono un po’ per tutto e per tutti.
Perché un politico italiano sia apprezzato e celebrato a livello generale, mettendo d’accordo delatori e detrattori, partigiani della prima ora e cavalieri dell’opportunità, gli tocca di morire. Recenti gli echi dei piagnistei bipartisan in memoria di Francesco Cossiga, come pure la sfilata dei ministri dell’ultimo governo Berlusconi, a Hammamet, nel decennale della scomparsa di Craxi. Ben più difficili, per non dire impossibili, gli elogi in vitam; quasi la morte, fantastica livella del principe De Curtis, lavori sulla memoria collettiva con la generosità del salumiere. Ho scordato un paio di nefandezze: che faccio, lascio?
“Che paese, l’America!”, scriveva Frank McCourt: una terra dove le elezioni le vince uno solo alla volta (da noi non perde mai nessuno); dove l’opposizione, per quanto muscolare e nervosa, non si lascia andare a complotti e inciuci; dove se l’hai fatta grossa, ma grossa veramente, non ti mettono sull’altro piatto della bilancia i tuoi meriti. E così, per dirla con Massimo Fini, capita che chi “ha chiuso la guerra del Vietnam, ha aperto alla Cina con quarant’anni di anticipo, ha eliminato l’equivoco del gold exchange standard, non era mafioso”, possa comunque essere ricordato come un mascalzone. Se si chiama Richard Nixon. Che Paese, l’America: dove il presidente eletto è, per davvero, il presidente di tutti. Al punto che non c’è piaggeria, non c’è faziosità nel salutarne con festosa partecipazione il giuramento di fronte alla nazione. L’Obama bis trova un po’ ovunque sponsor entusiasti nel giorno in cui, formalmente, succede a se stesso. Con plausi e abbracci anche dal mondo dell’arte e della cultura.
Quarantaquattro ritratti per il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti: li ha commissionati ad altrettanti artisti afroamericani il Charles H. Wright Museum of African American History di Detroit, chiamando i vari Faith Ringgold, Charly Palmer e Tyree Guyton. Nasce una carrellata di mezzi busti, ognuno istoriato e griffato in maniera diversa: roba da far perdere la testa, se uno è incline all’autocompiacimento.
Dopo Al Gore, Bill Clinton e signora, Chuck Close aveva fotografato – ai tempi della sua prima campagna elettorale – pure Obama, partecipando insieme a Jasper Johns, John Baldessari e Richard Serra alla produzione di opere immesse sul mercato per raccogliere fondi in favore del comitato elettorale democratico. Un arazzo che sfiora i due metri mezzo per uno e novanta, in dieci esemplari: uno è subito finito al Mint Museum, in North Carolina; un altro è in mostra, in questi giorni alla National Portrait Gallery di Washington.
Ha celebrato con esclusive serate danzanti, concerti e mostre a tema le elezioni dei vari Lincoln e Garfield; abbracciando, ricordando solo i più recenti, Carter, Reagan e Clinton. Lo Smithsonian non poteva dunque farsi mancare l’ultimo inquilino della Casa Bianca: in occasione della rielezione di Obama ecco la mostra The American Presidency, che mette in fila memorabilia e cimeli vari. Nella giornata degli auguri arrivano quelli pubblici, affidati a un post sul sito della CNN, da parte di Ai Weiwei: per il dissidente dell’arte l’occasione è propizia per tornare a lamentare le occlusioni del governo cinese.
Tutto ciò è America, tutto ciò – soprattutto – è Obama. E in Italia? La questione, in fondo, non si pone: a certe latitudini i politici, le statue, se le fanno da soli.
Francesco Sala
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