Fausto Falchi. E fate ciao con la manina
Un diploma in Scultura all'Accademia di Napoli, poi il corso allo Iuav di Venezia, dove vive. Classe 1982, carattere schivo, cresciuto tra gli artigiani, si è fatto conoscere “inscenando” uno sciopero. A protestare, una flotta di Maneki neko, generalmente usati, nella tradizione orientale, come portafortuna. Il tema del lavoro, del rapporto tra uomo, società e politica è sempre al centro delle sue opere. Spesso macchine automatizzate che svolgono azioni inutili. Come “fumare” sigarette.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Ultimamente ho letto La singolarità è vicina di Ray Kurzweil, Nuova Panda, schiavi in mano di un gruppo di ricercatori campani, Insurrezione Armata di Aldo Grandi e da un po’ sto leggendo Il Capitale di Marx. Ascolto di tutto, da Philip Glass a Goran Bregovic, da Gaber ai Dream Theater, passando per i Zezi (Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco).
I luoghi che ti hanno affascinato.
In genere sono attratto dai particolari che narrano la storia di un posto. Mi piacciono le cose su cui è visibile l’azione dell’uomo e di conseguenza si nota una relazione, un rapporto basato sulla trasformazione delle forme e dei materiali.
Le pellicole più amate.
Guardo molti film, potrei citarne qualcuno di Elio Petri come La classe operaia va in paradiso o La proprietà non è un furto; Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, Trainspotting di Danny Boyle o Crash di David Cronenberg.
Artisti guida?
Hans Haacke, Tania Bruguera, Jimmie Durham, Marjetica Potrc e Antoni Muntadas hanno arricchito molto il mio percorso formativo.
Il tuo lavoro oscilla tra rapporti precisi: uomo-macchina, uomo-lavoro, uomo-politica…
Sono elementi che emergono con forza. Dal 2008 ho approfondito alcune questioni come l’avanzamento tecnologico, inteso come sviluppo delle tecnologie nei più svariati campi di applicazione, concentrandomi sugli effetti collaterali ad essi collegati e sulle trasformazioni che questi producevano sull’uomo. Sono interessato al mondo del lavoro perché è spesso la prima falda sociale ad assorbire dei mutamenti, quasi un terreno di esercitazione pieno di bersagli inerti. La politica, il lavoro e l’arte sono immersi in un unico continuum storico, un terreno di relazioni inestricabili che il genere umano intrattiene con il proprio ambiente. C’è qualcosa che soggiace a queste relazioni e m’interessa coglierne i punti di frizione, le crepe che ciclicamente ne emergono.
In questo momento di crisi, di dibattiti sulla riforma del lavoro, di forbice sempre più allargata tra ricchi e poveri, hai molto materiale su cui riflettere.
Penso che la complessità della fase storica che viviamo sia dovuta a una perdita di consapevolezza da parte di chi pianifica le politiche globali su quelle che sono le reali necessità sociali. Oggi gli interessi di profitto di pochissimi pesano come un macigno sulle vite di miliardi di persone e pare esserci un ridottissimo margine per soluzioni di tipo comunitario o anche solo di solidarietà tra gli individui. In queste circostanze non si può evitare di affrontare determinati discorsi, soprattutto se si agisce da una posizione di privilegio come la nostra. Rimanere indifferenti significherebbe essere per metà colpevoli.
Molte tue opere sono “animate” da meccanismi automatizzati, difficili da documentare. Per questo realizzi brevi video in cui mostri le opere in azione?
Essendo lavori dinamici, spesso uso il video per migliorarne la fruizione. Alcuni di essi mutano nell’arco della loro attività e mi interessa documentare la fase di trasformazione.
Quanto è importante per te il “fare” nella costruzione di un’opera?
È fondamentale. Spesso, nel realizzare un lavoro, soprattutto nella fase di sperimentazione, adattamento e assemblaggio, trovo gli spunti teorici che mi portano a uno nuovo. Sono cresciuto fra gli artigiani e questo mi ha dato la possibilità di avere buone conoscenze tecniche che mi agevolano nella fase di progettazione.
Alla tua recente mostra da kaufmann repetto a Milano hai esposto l’opera Ode an die Freude. Un’installazione solenne dove tenti di dare alle fiamme una bandiera dell’Unione Europea sulle note della Nona sinfonia di Beethoven.
Il lavoro mette insieme elementi complessi e disomogenei anche dal punto di vista delle soluzioni tecniche. Ho cercato di far emergere dinamiche piene di ambiguità. Il lavoro rielabora metaforicamente ciò che accade nella realtà: le forze e le resistenze che si sfidano dall’interno di un meccanismo austero di formalità e ritualità creano una lenta erosione degli elementi che lo compongono, ma allo stesso tempo ne impediscono la disgregazione. Non penso di essere un anti-europeista, ma il modello di sviluppo basato su un neoliberismo spinto non è una soluzione.
Da cosa sei partito per realizzarel’immagine inedita per la copertina di questo numero?
Ho realizzato l’immagine di copertina partendo da un processo di ossidazione per la realizzazione dell’opera Lavoro Illegale, un distributore di proiettili degli Anni Settanta, ritrovato nella periferia deindustrializzata milanese.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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