Firenze secondo Sergio Givone. Contemporanea, nell’antico
Il nuovo assessore alla cultura del Comune di Firenze ha discusso con Artribune i suoi progetti per la città, oltre alla sua personale concezione della contemporaneità. Fra arte, politica ed economia, con un’attenzione costante alle problematiche filosofiche. Ma la città dove sta andando?
Tra i più raffinati studiosi di estetica, noto per i suoi saggi sul nichilismo e sul romanticismo – ma anche su Dostoevskij e William Blake -, Sergio Givone è autore di romanzi (editi da Einaudi) e docente presso l’Università i Firenze. Nello scorso giugno ha ricevuto l’incarico di assessore alla cultura e alla contemporaneità per il capoluogo toscano. Lo abbiamo incontrato nel suo studio in Palazzo Vecchio, per discutere a freddo di questo suo nuovo impegno.
In cosa si distinguerà il suo assessorato da quello di Giuliano Da Empoli? Quali le novità, le idee da preservare e quali (se ce ne sono stati) gli errori da non ripetere?
Prima di tutto devo dire che il mio assessorato si pone in continuità, non in rottura. Naturalmente, l’orientamento su specifici temi potrà essere diverso, alcune delle decisioni prese allora potranno essere da me revocate, ma la continuità resta. Lo dico in rapporto a quelli che sono i punti di massima criticità su cui vorrei insistere. In primo luogo: le biblioteche. La necessità di rivitalizzarne la rete complessiva apparteneva già alla precedente amministrazione.
Mica sarete perfettamente allineati?
Beh, no. Da Empoli voleva spostare il Vieusseux al Forte Belvedere. Io ritengo invece che questo sarebbe un errore. Penso che la Biblioteca del Vieusseux dovrebbe restare nel centro nevralgico della città, trasferita piuttosto alle Oblate, dove potrà finalmente ritrovare se stessa. Per tornare a essere punto d’incontro e discussione, non solo di studio e ricerca su un grande patrimonio librario.
E per l’arte contemporanea?
Da Empoli aveva voluto intitolare questo assessorato al contemporaneo. E io voglio tener fede a questo mandato. Anch’io voglio che Firenze apra al contemporaneo, perché quando questo è avvenuto, ha sempre riscosso un grande successo. È come se Firenze fosse una vetrina naturalmente portata a far risplendere la contemporaneità.
Perfettamente in linea con il precedente assessorato pure qui?
Non esattamente, perché è qui che giunge il mio contributo. E la mia idea si ricollega proprio al nome della vostra rivista, che porta in sé il concetto di ‘tribuna’. Pensiamo alla Tribuna degli Uffizi, restaurata di recente. Era questo il luogo dove i Granduchi volevano che venissero esposte nuove opere d’arte (allora contemporanee), ma anche opere “ritrovate” (nei magazzini, nei sotterranei del museo), per capire se quei manufatti, che venivano da un passato remoto, avessero ancora qualcosa da dirci. Io il “contemporaneo” a Firenze lo penso proprio così. Nel Museo di Antropologia e Etnologia ci sono tesori scoperti da esploratori fiorentini (che in realtà erano degli esteti), che aspettano solo di essere esibiti per quello che sono: straordinarie opere d’arte. Su questo insisterò finché sarò qui. Il contemporaneo è ciò che riconosciamo come tale, anche se non è un manufatto di oggi. E questa può essere veramente la missione tipica di Firenze.
Come concilia questo suo nuovo incarico con gli originali impegni di filosofo, scrittore e docente universitario?
Giorno dopo giorno. Io non ho rinunciato a fare il professore, quindi andrò avanti a insegnare. Non ho rinunciato a fare lo studioso e il filosofo, quindi devo ritagliarmi degli spazi per fare le mie letture, riflessioni, proposte. E non credo che ci sia contrasto, ma piuttosto una vera sinergia (per usare una parola di moda…). Credo che la vita del filosofo sia fatta di tante vite: quindi ben venga tutto quello che accade qui, come materia su cui riflettere.
Quale il rapporto con il sindaco e l’amministrazione comunale?
Un buon rapporto: io sono un delegato del sindaco, non lo dimentichiamo! E il giorno in cui io non avessi più la sua fiducia, lui farebbe bene a sostituirmi. O se entrassi io in rotta di collisione, dovrei certo dimettermi. Se questo non è ancora avvenuto, vuol dire che c’è sintonia.
Ci sono particolari progetti che ha già voluto o che intende sostenere?
Un progetto a cui tengo molto (ma che risale fino all’era Spadoni) riguarda il teatro. Io voglio lavorare intensamente, impegnarmi perché la Pergola diventi teatro della tradizione italiana, mettendo in scena quei testi straordinari di cui le nostre biblioteche sono piene. E così voglio che la Pergola diventi non solo centro di produzione, ma anche di formazione e ricerca. Tutto questo non perché la Pergola deve essere “il teatro” di Firenze e tutti gli altri satelliti abbastanza negletti. Niente di tutto questo. Io credo che solo fissando questo perno centrale si attiverà un circolo virtuoso che metterà in moto tutti gli altri. Lo stesso discorso dovrà valere anche per la musica, la danza e altre forme di spettacolo.
In questo periodo di crisi economica e di tagli alla cultura, come distribuirete le risorse a disposizione?
I problemi economici sono la vera sfida che ci aspetta, perché l’assessorato è sempre meno un erogatore di fondi. Non possiamo illuderci, i fondi sono sempre meno e non bastano per tutte le cose che abbiamo messo in movimento. Bisogna che tutte le realtà, una volta attivate, imparino a vivere da sole. L’assessorato farà di tutto perché possano trovare risorse, ma dovranno trovarle al di fuori del finanziamento pubblico, sennò saremmo come un cane che si morde la coda.
Ci saranno alcuni settori o realtà che dovranno subire tagli maggiori?
Per dire le cose in modo chiaro, è stata fatta la scelta di dare il grosso dei finanziamenti a due grandi istituzioni: il Nuovo Teatro Comunale e la Pergola. E non è stata una scelta di favore o compiacenza, perché se non la si faceva, queste istituzioni sarebbero morte. Ma io sottoscrivo appieno il ragionamento fatto a suo tempo: solo se queste realtà saranno tenute in vita, tutto il resto potrà funzionare. E se io dicessi: taglio le due teste, risparmio i soldi e li distribuisco ai più piccoli, il problema non sarebbe risolto. Perché quelli diverranno ancora più piccoli, vivendo in una situazione di minorità e impoverimento.
Un altro (e conseguente) problema è l’emigrazione di molti giovani e promettenti operatori dell’arte. Ma le cause sono solo economiche o anche strutturali? E avete qualche programma per agire in proposito?
Il problema è che non si è ancora capito, specie tra chi amministra la città, che Firenze ha questa vocazione di riscoperta del contemporaneo nell’antico. Le faccio un esempio: abbiamo inaugurato, dopo 27 anni di restauro, la Porta del Paradiso del Ghiberti. E abbiamo visto questa porta per la prima volta, anzi abbiamo riscoperto qualcosa che non sapevamo più che cosa fosse veramente. E per farlo abbiamo dovuto mettere in campo saperi di una straordinaria raffinatezza, anche sul piano delle nuove tecnologie. Dei saperi più che attuali: addirittura futuribili! Ecco come il contemporaneo sta in rapporto col passato e come il passato è una spinta per inventarsi nuovi mondi (e cos’è l’arte se non invenzione di nuovi mondi?). Allora, questo si fatica a capirlo. Questo patrimonio di Firenze viene percepito come una zeppa, come qualcosa di inarrivabile che si può solo preservare. Ma è anche vero che questo patrimonio è un volàno, un motore che attiva saperi e tecniche che poi a loro volta mettono capo a nuovi mondi artistici.
Come vi rapporterete con le grandi istituzioni culturali della città? Mi riferisco in particolare a Palazzo Strozzi o alla Fondazione Florens…
E poi tutte le altre… Sono (starei per dire) il braccio secolare dell’assessorato. Lo dico, e qui ritiro quel che ho detto, perché queste istituzioni sono autonome. Non è che l’assessorato può disporne come crede. Una volta che ha dato la facoltà di agire, sono loro che prendono le decisioni. Ma è chiaro che l’assessorato senza di esse non può fare niente. Nostra è la regia: a loro l’interpretazione.
E sul tessuto urbanistico, ci sono spazi su cui intenderete puntare in modo particolare?
Tanti e tanti luoghi, che sono nel Comune e del Comune di Firenze. Per esempio il vecchio Tribunale, situato nel cuore della città: uno spazio magnifico che chiede la ristrutturazione e offre grandi possibilità di valorizzazione. Altro luogo che mi sta particolarmente a cuore è il Forte Belvedere, che mi piacerebbe riaprire per farne un luogo deputato alle esposizioni di arte contemporanea. Anche perché dopo gli anni di chiusura per i gravi incidenti accaduti, è uno spazio che deve essere rivitalizzato.
Quale sarà invece il rapporto con i privati? Quali le sinergie da sviluppare e quali i pericoli da contenere?
Certo che è pericoloso: il privato è privato, ha i suoi interessi. Però c’è poco da fare. Oggi, senza l’aiuto (anche) dei privati, ci mancherebbe l’ossigeno. Abbiamo bisogno di loro, eccome! Il nostro problema è piuttosto far capire ai privati che vale la pena sostenere la cultura (e che questo comporta anche determinate responsabilità).
Dopo la chiusura di Ex3, è ancora all’ordine del giorno il progetto di un museo d’arte contemporanea a Firenze?
È un progetto che ho pensato in passato, ma a cui ora non credo più. Fra poco aprirà il Museo del Novecento alle Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. La data dell’inaugurazione non è ancora stabilita, ma spero potrà essere nei primi mesi dell’anno prossimo. Lì confluiranno la collezione Della Ragione e quella attualmente al Forte. Ma sarà un museo del Novecento. Un museo per l’arte contemporanea non mi sembra più all’ordine del giorno. Perché c’è già il Pecci di Prato (e anche Celle). E poi c’è l’Ex3, che diversamente da quanto si è detto in questi mesi non è propriamente chiuso! È un’esperienza che si è conclusa con i gestori precedenti, ma che si riaprirà sulla base di un bando che è già stato fatto e che permetterà di affidare ad altri gestori quello spazio.
Lasciamo per un attimo da parte l’assessore Sergio Givone e rivolgiamoci al filosofo. In qualità di storico e teorico dell’estetica, come si pone nei confronti delle produzioni artistiche di questi ultimi decenni?
Le osservo, le guardo, le studio, le interrogo. Sono stato a Kassel per Documenta. E non ne ho ricavato una grande impressione. Elementi di novità non ne ho visti: li aspetto. Un filosofo fa questo. Non ha una teoria generale sull’arte contemporanea a partire dalla quale valuta. Lui piuttosto interroga, ascolta, guarda.
Ma ci sono artisti – tra gli ancora viventi, intendo – che hanno stimolato questa sua interrogazione?
Eccome! Ne cito uno solo: Mimmo Paladino, con cui ho fatto di recente una discussione su che cosa è l’arte oggi, partendo dall’immagine emblematica di Don Chisciotte. Ed è proprio questo insieme di utopia, follia, generosità…
Per concludere: come interpreta (filosoficamente) il termine ‘rottamare’, un’espressione molto moderna, avanguardista, futurista. In una parola, vecchia.
Concordo in pieno. E a questo punto voi direte: ma quindi l’assessore si mette in contrasto col suo sindaco! Ma la faccenda è seria, perché dietro questa parola c’è un problema vero, che è quello del rinnovamento. Ora, l’arte è questo. È un lavoro (dicevamo prima) di rapporto con il passato in prospettiva futura, un lavoro continuo di rinnovamento dell’esistente. E proprio questo termine, avanguardista e al contempo vecchiotto, lo mette in luce splendidamente. Ma poi io ho fiducia nel rottame. Che è un’idea non mia, ma di Benjamin. Una cosa che ha finito, che è uscita ormai dal giro della produzione, è giusto che esca, ma uscendo, naufragando, può darsi anche che riveli delle forze innovative. In questo senso il rottame mi piace. Ma resta comunque un rottame, non bisogna dimenticarlo.
Ma quindi come (e dove) vede il futuro dell’arte?
Questo invece lo considero molto poco filosofico. Perché se la filosofia è attenzione, ascolto, interrogazione, interpretazione, allora non mi si deve chiedere dove stiamo andando. Non lo so, non lo sa nessuno. Far finta di possedere un sapere che sistemi tutte le cose, quella disciplina che chiamavamo “filosofia della storia”, ci ha illuso a lungo. Io non credo a questa ideologia. Piuttosto direi che siamo affacciati su un futuro dove può succedere davvero di tutto. E l’arte dove lavora se non su quella faglia, su quella soglia molto sottile? E senza ricercare l’astruso, il complesso: a volte il novum ha un volto di una semplicità disarmante. Mi piace di più questa idea: che tutto può essere, che tutto può succedere.
Simone Rebora
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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