La leggenda della cupola
Il 25 gennaio riapre al pubblico la cupola di San Gaudenzio, a Novara. Un capolavoro di Alessandro Antonelli, uno dei massimi tesori dell’architettura moderna italiana. Ma sarebbe più proprio dire internazionale.
La cosa bella delle leggende è che non si capisce mai quale sia il limite in cui la solida verità storica si scioglie nella liquida verità letteraria. Lo scorso anno ho realizzato un grande lavoro a Casa Bossi, uno dei magnifici monumenti antonelliani, edificio centrale nella storia novarese, tanto importante da avere avuto la tipica ventura che tocca appunto solo ai capolavori italiani (per me che sono romano, nessuno stupore): è stato fisicamente abbandonato fino a diventare una rovina, ma è stato sublimato in un’opera letteraria che ha eletto la casa come protagonista del suo racconto, un racconto sulla storia del nostro Paese dal 1861 (anno di costruzione di Casa Bossi e di unificazione sotto il re sabaudo della penisola italica) ad oggi.
Era il 2011 e, da New York, nel più triste e grigio centocinquantenario che si potesse immaginare, io rileggevo la storia d’Italia attraverso chi aveva abitato le stanze di un edificio che di lì a pochi mesi, avrei dovuto, col mio lavoro e con l’aiuto del comitato che mi aveva invitato, resuscitare e riconsegnare al presente della Storia e degli uomini. Quando poi arrivai a Novara all’inizio del 2012, una delle prime cose che chiesi fu di incontrare Sebastiano Vassalli, l’autore di quel romanzo che mi aveva parlato degli italiani, dei novaresi e di Casa Bossi. 5mila metri quadrati, un numero di stanze che non sono più in grado di contare e una storia per ogni stanza. Quando incontrai Vassalli gli chiesi quali vicende tra quelle che aveva descritto fossero realmente accadute nella casa. La sua risposta: nessuna. Ciò nonostante non potrei dire che non fossero tutte, in qualche modo, autentiche. A tal punto che nel mio ricamo visivo sono finito, in un caso, quasi senza volerlo, per raccontare una di quelle storie, trattandola come un mito di fondazione.
Mesi dopo ne scoprii una di storia, che era vera. Vera dal punto di vista storico. In Casa Bossi aveva vissuto Franco Francese, un pittore al quale avevo dedicato un saggio sulla verità, anzi, di più, un saggio intitolato L’unica verità possibile.
Ma qual è l’unica verità possibile?
La Storia ci dice che Alessandro Antonelli costruì Casa Bossi a metà di quella che è forse la sua più grande impresa, la costruzione della Cupola di San Gaudenzio. L’evidenza dei fatti ci mostra come la casa sia stata un elemento che ha modificato il profilo stesso del fianco della città, diventando a livello prospettico, il basamento di quella cupola, un basamento più marcatamente antonelliano visto che la basilica su cui la cupola poggia, era preesistente. Ma dalla valle, prospetticamente, Casa Bossi e la cupola, a livello visivo sono un tutt’uno. E più ci si allontana, quando Casa Bossi lentamente si sfoca e scompare nell’amalgamarsi delle forme degli edifici in un unico volume indistinto, resta la cupola, a svettare, altissima, come fosse sospesa su un’intera città.
Dai paesi vicini, in lontananza, si vede così Novara, una linea grigia di edifici, quasi un sottile rettangolo bidimensionale e su di esso, indistintamente, sull’intero agglomerato urbano una cupola altissima dalla forma netta, acuminata, che sembra appuntarsi nel cielo.
Faccio del mio meglio, ma la vista di quella cupola è qualcosa che non si può raccontare. È un atto titanico, che già a venti chilometri di distanza, vedendola ergersi come una stele, nessuno potrebbe, in coscienza ricondurre all’opera di un uomo.
E, invece, un uomo che l’ha costruita c’è stato. Ma per raccontare questa storia bisogna ricorrere alla leggenda. Devo allora tornare al romanzo di Sebastiano Vassalli, che appunto per parlare di Casa Bossi nel suo Cuore di Pietra (questo il titolo del libro che avevo fin qui omesso), impiega il primo capitolo per fare il ritratto dell’architetto, Alessandro Antonelli, l’uomo che per costruire la Mole di Torino fece fallire le banche degli ebrei, e che a un certo punto della sua vita venne sfidato a duello proprio dal committente per cui stava costruendo l’enorme dimora ai piedi della cupola. Il motivo? Ancora una volta il fallimento verso cui l’impresa, come al solito sovradimensionata, stava trascinando il proprietario. Due padrini avvicinarono Antonelli e gli gettarono il guanto da parte del conte. Lui li guardò, non raccolse il guanto e gli rispose: «Credete che io, che sto sfidando la Storia, per costruire un’opera che sarà leggenda quando sarete tutti morti, possa davvero prendere in considerazione la vostra sfida ridicola?». Il guanto si coprì di polvere e la casa venne terminata esattamente secondo il piano dell’architetto. Questo breve aneddoto, riportato da Vassalli, ci aiuta a spiegare il perché ci vollero 40 anni per completare la cupola di San Gaudenzio.
La leggenda, anche qui ci racconta una trama precisa. Quando, nel 1841, gli venne commissionata l’opera, per dare una cupola alla basilica del santo patrono della città, Antonelli fece i suoi disegni. L’idea era esattamente la stessa che oggi si può veder realizzata. Ma allora, nella prima metà del XIX secolo, in una piccolissima città di provincia, chi avrebbe seriamente impiegato l’incalcolabile cifra necessaria a costruire quel sogno folle. Così Antonelli prese i suoi disegni, li portò in una stanza inaccessibile del suo studio e ai committenti ne presentò altri, di una cupola più “adatta” all’occasione. I lavori partirono e dopo qualche anno, quando il ponteggio si smontò, nessun cambiamento era stato fatto, apparentemente. Dov’era la cupola? Se lo domandavano i novaresi, ma se lo domandavano soprattutto gli investitori, che si chiedevano anche che fine avessero fatto i loro soldi. Antonelli li aveva impiegati per fare i rinforzi alla struttura dell’edificio. Arcate in mattoni di dimensioni tali da aver dovuto costruire un compasso grande quanto le arcate stesse per essere preciso nei disegni e nei calcoli. Un compasso gigantesco che è conservato nella basilica e che dopo decenni sarà di nuovo visibile. «I rinforzi per cosa?» gli domandarono gli investitori. La risposta era chiara, per reggere la cupola che ancora doveva essere realizzata, ma per cui serviva un secondo appalto. Dieci anni dopo l’inizio dei lavori il cantiere dunque ricostruiva i suoi ponteggi e dopo aver trovato le necessarie risorse , si preparava a realizzare la cupola “adatta all’occasione”. Ma Antonelli non aveva nessuna intenzione di fare davvero “quella” cupola. così, quando di nuovo il ponteggio si smontò, la chiesa era scoperchiata e solo un ordine di colonne circolare si ergeva sopra quella che prima era stata la copertura. I notabili della città avevano raggiunto il limite, ma licenziare Antonelli non era saggio, visto che la chiesa non aveva più un tetto. Dunque, lo pregarono di chiudere il discorso con un terzo appalto per buona pace di tutti. Passarono altri dieci anni di lavori e alla fine un secondo ordine di colonne si alzava nell’aria in un inconcepibile contrasto di solidità e leggerezza. Erano gli anni in cui Eiffel costruiva la sua torre vertiginosa grazie all’impiego del metallo. Antonelli faceva la stessa cosa, ma con la pietra, superando di una tacca il limite dell’impossibile.
Stavolta Antonelli fu costretto a tirare fuori i disegni originali. Se non altro per convincere gli investitori inferociti che un ultimo appalto, il quarto, sarebbe stato davvero l’ultimo. I rapporti erano più che guastati, come sempre quando si lavora con un artista che sfida a scacchi la Storia. Le ragioni degli uomini passano in second’ordine. E sono pochi quelli capaci di non prendersela. Tuttavia, oramai valeva la pena dare una conclusione a quel sogno visionario che mai avrebbe trovato credito se fosse stato dichiarato sin dalla partenza. Allo scoccare dei quarant’anni, nel 1878, la cupola vedeva la luce, così come possiamo ancora osservarla oggi, increduli, pur avendola davanti agli occhi, che sia qualcosa di reale, che non sia frutto di una post-produzione cinematografica, che non sia un effetto speciale americano. L’architetto la poté vedere ultimata poco prima di morire, per poi lasciare a suo figlio il compito di rifinire i dettagli.
La città ci mise un po’ ad assorbire il colpo. Ma oggi, grazie al sogno di un artista, i novaresi quando alzano lo sguardo vedono la più bella cupola che la storia dell’architettura possa ricordare.
È una storia, questa, che ho raccontato perché dal 25 gennaio, dopo molti anni, l’interno della cupola di San Gaudenzio sarà di nuovo visitabile dal pubblico. Quando lavoravo a Casa Bossi, ebbi il privilegio di ottenere un permesso per visitarla, per camminare lungo le arcate, passeggiare tra le colonne appese al cielo, perdendo l’orizzonte nella serie concentrica di cupolette che essa custodisce all’interno e che simulano uno sfondamento della calotta celeste. Un’opera che stavolta non è leggenda, non ha nulla di romanzato, e con la solidità della pietra ci racconta di come un uomo possa tentare la scalata al cielo e farcela.
Dal 25 gennaio, grazie all’impegno dell’amministrazione della città, ognuno potrà salire quella scala vertiginosa che riconsegna all’Italia uno dei suoi tesori architettonici di maggior valore simbolico e potrà consegnare al visitatore un tipo di esperienza che nessun racconto potrà eguagliare.
Gian Maria Tosatti
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