Musei in Cina: cosa sta succedendo?
È un fenomeno che ha dell’incredibile, per noi europei coi piedi affondati in una crisi che non accenna a scemare. Così, mentre dalle nostre parti i musei chiudono o comunque riducono all’osso programmazione e acquisti, in Cina se ne costruiscono a centinaia. E non è un’esagerazione. Solo che… durano al massimo vent’anni. Ecco il perché.
Le diverse voci che risuonano nella realtà culturale della Cina odierna ricordano molto quelle dell’America d’inizio Novecento: ricchezza, mecenatismo, filantropia, nazionalismo. I grandi sforzi rivolti alla creazione di nuovi musei e poli culturali in tutto il territorio, dalle metropoli alle province, fino a Hong Kong, lo testimoniano in maniera indiscutibile. Questi nuovi contenitori si rifanno pienamente all’industria museale creata negli Stati Uniti nel secolo scorso, ben lontana dal modello europeo e dalla conservazione come missione. In Cina, infatti, molto spesso si pensa prima alla progettazione di spazi da migliaia di metri quadrati, per concentrarsi in un secondo momento sul problema di come riempirli.
Questa euforia ha molto a che fare con l’orgoglio nazionale, sia pubblico che privato, sostenuto da un Governo che ha inserito le politiche culturali nella propria strategia di crescita. L’anno scorso sono stati costruiti 395 musei in tutta la Cina, molti dei quali a vocazione storica. Trecentonovantacinque. Per queste straordinarie cifre si deve ringraziare il crescente interesse per la filantropia dei nuovi milionari asiatici, saliti a 3.3 milioni lo scorso anno e che, in dodici mesi, hanno destinato più di 1.6 miliardi di dollari in collezioni e nuove istituzioni museali.
Si aggiunge poi la necessità di riutilizzare siti industriali abbandonati e di riprogettare l’ecosistema urbano, compreso quello di recente costruzione lasciato in eredità dalle Olimpiadi del 2008 e dall’Esposizione Universale del 2010.
A Pechino ad esempio, verrà realizzato un museo di 426.000 mq accanto al National Olympic Stadium, il NAMoC – National Art Museum of China, la cui apertura è prevista entro il 2015. Accanto al “nido” di Herzog & de Meuron e Ai Wei Wei, un altro grande nome internazionale è stato scelto per la sua progettazione, Jean Nouvel, che ha battuto una rosa di finalisti d’eccezione come Frank Gehry e Zaha Hadid.
Ma l’area maggiormente coinvolta da questa riprogettazione è il Bund di Shanghai, una zona di 170.000 mq che sorge sulla confluenza dei fiumi Huangpu e Suzhou: nel 2010 ha ospitato l’Expo e ora è necessario pensare a come riutilizzare l’architettura creata per l’occasione. In ottobre, in occasione dell’apertura della Biennale di Shanghai, sono stati inaugurati due grandiosi progetti: The China Art Palace, nato dall’ampliamento del Padiglione cinese costruito per l’Expo 2010, e The Power Station of Art, sorto negli spazi industriali utilizzati precedentemente come centrale termica, che hanno ospitato anche il Padiglione del Futuro sempre durante l’Esposizione Universale. The China Art Palace, con i suoi 640.000 mq, è uno dei musei più grandi al mondo dedicato all’arte contemporanea e dispone di una collezione di 14.000 opere. Il progetto è stato finanziato sia dal Governo che da donazioni private, ma viene sostenuto anche dal ristorante e dal teatro annessi. Il nuovo Power Station of Art è invece il primo museo interamente statale dedicato all’arte contemporanea. Lo spazio da 41.200 mq ospita ora la Biennale, mentre la prossima mostra sarà dedicata a Andy Warhol. Questi spazi fanno parte di un piano governativo di costruzione di 16 nuovi musei entro il 2015, con l’obbiettivo di trasformare Shanghai in una metropoli internazionale. Utilizzando l’arte come strumento e leva di marketing urbano. Tra questi progetti anche l’Expo Museum, affinché un evento della portata di quello svoltosi qui nel 2010 non sia fine a se stesso e possa generare ancora rendimento in futuro.
In un hangar in disuso – siamo ancora a Shanghai – il Governo ha concesso a un prezzo favorevole l’area in cui sorgerà il museo del mega-collezionista Budi Tek, il De Museum. Tek ha riconosciuto che la vanità e l’ego hanno giocato un ruolo fondamentale nella decisione di aprire un proprio museo, uniti – ça va sans dire – alla missione sociale di condividere il suo amore per l’arte. Fra gli altri progetti privati di recente apertura, il Long (Dragon) Art Museum voluto dalla coppia Wang Wei e Liu Yiqian, che esporranno la loro collezione del valore di 317 milioni di dollari, dalle antichità all’arte contemporanea cinese, in uno spazio di 10.000 mq. Il costo annuale di gestione previsto è stimato in 1.6 milioni di dollari, a cui si aggiungeranno quelli di un secondo museo la cui inaugurazione è prevista per l’ottobre del 2013.
Importanti progetti sono stati avviati anche nelle regioni “periferiche” della Cina. Ad esempio, a nordest, sulle rive del Fiume Giallo, nella città di Yinchuan, nascerà nel 2014 il più grande polo culturale privato della regione, The Yellow River Arts Centre, che disporrà di ben 800.000 mq. Zhu Tong è il collezionista che ha finanziato il progetto da 2 miliardi di dollari per il Nanjing Sifang Art Museum, inaugurato a novembre nella provincia di Jiangsu su progetto dello studio di Steven Holl. Nella provincia del Sichuan sorge invece lo Jianchuan Museum Cluster, fondato nel 2005 da Fan Jianchuan, che spende ogni anno qualcosa come 188 milioni di dollari per la gestione di questo spazio da 330.000 mq dedicato all’epoca maoista e composto da almeno una quindicina di musei.
Secondo il direttore della fiera ShContemporary, Massimo Torrigiani, le motivazioni che stanno alla base di questo nuovo mecenatismo cinese sono l’esibizionismo, l’amore per l’arte, l’orgoglio nazionale, il senso civico, ma anche l’incoscienza, l’avidità, la bulimia, il monumentalismo “mescolate in quantità diverse, come in tutti gli altri collezionisti al mondo. La malattia è la stessa, la fenomenologia sempre diversa”. Torrigiani continua: “Il motivo della poca comprensione di quello che sta succedendo da queste parti è nell’uso delle stesse categorie, del solito vocabolario, degli esempi di sempre, presi da contesti culturali diversi, da epoche diverse, per descrivere qualcosa di inedito. Incommensurabile. I movimenti culturali in Cina e in Asia ci costringono a una ri-definizione delle categorie che siamo abituati a usare. A un difficile lavoro di traduzione”.
Ma il grosso interrogativo che tutti si pongono è la sostenibilità di questi musei, sia dal punto di vista finanziario che da quello delle competenze. “La sostenibilità è un grosso problema per gli aspiranti proprietari di musei, che hanno bisogno di tasche profonde per sostenere i costi”, ha dichiarato al Jing DailyMagnus Renfrew, direttore della fiera Art HK. C’è una questione fondamentale di cui tener conto: in Cina la terra appartiene esclusivamente allo Stato. Secondo questa legge, è possibile ottenere solamente una locazione della durata di vent’anni. Data questa premessa, gli ingenti investimenti realizzati da soggetti privati riusciranno a fruttare in quest’arco di tempo?
Una soluzione l’ha trovata l’Himalayas Art Museum di Shanghai, aperto nel 2005 e finanziato dal gruppo immobiliare Zendai, che ha associato il museo a uno shopping center, a teatri e a un hotel. Qui l’interesse commerciale e quello culturale non si escludono a vicenda, con un centro commerciale in grado di generare profitto per rendere sostenibile il proprio museo.
“Il denaro può accelerare alcuni processi, come costruire una collezione e un mausoleo, ma non altri, come educare chi si occupa di collezioni e mausolei”, sostiene ancora Massimo Torrigiani. Insomma, la Cina può essere considerata un ottimo hardware ma non un buon software. Mancano curatori, expertise, staff qualificato. Senza dimenticare l’influenza della situazione politica e della censura, e un sistema dell’arte ancora troppo condizionato dalle logiche di mercato. Che naturalmente entrano a gamba tesa anche in questi nuovi spazi culturali.
Martina Gambillara
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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