Zara e il sistema dell’arte
Cos’è contemporaneo nell’attuale assetto culturale italiano: la ricerca o il sistema promozionale che vorrebbe sostenerlo? La situazione è complessa e fragile: a una debolezza strutturale del sistema museale verso il contemporaneo si associa una dilagante crisi d’idee, un’atmosfera di decadenza da fine impero in cui molti sono corresponsabili.
Il sistema dell’arte, sempre più concentrato nell’assegnare premi e stilare classifiche, ratifica ciò che appartiene al sentimento del tempo piuttosto che metterlo in discussione. In alcuni casi dà vita a una macchina di spettacolarizzazione senza memoria, trasformando gli artisti in bravi bambini che ottengono la caramella se hanno fatto bene il compito che tutti si aspettano. Ma perché il sistema legato alla ricerca non riesce a far fronte a questa distorsione del sistema? Per fragilità interna e insufficienza di budget, ma anche per mancato coordinamento. Basti pensare a come sono ancora sporadiche le esperienze espositive di respiro di autori mid-career nei centri museali.
All’interno del nostro sistema vi è una presenza inquietante e autoreferenziale che centri come Torino e Roma non hanno scalfito: Milano e il successo di sistema Anni Novanta (molto dopo la Milano da bere di craxiana memoria, di cui forse per un decennio si è però perseguita la stessa autistica glorificazione). A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, nel decennio successivo, grazie soprattutto alla comparsa capillare e totalizzante di Internet, si è assistito al progressivo avanzamento di una situazione molto più eterogenea e propositiva. Una parcellizzazione stimolante seppur non integrata di vari centri nella penisola ha dato spazio ad autori e attori nuovi, che mal rispondono alle logiche del secolo scorso. Nel complesso si assiste a un’interessante mappa cangiante dove – il forse è d’obbligo – i protagonisti mutano di anno in anno secondo una metamorfosi spesso degenerativa. Penso alla rinascita romana del 2009 già disattesa, allo sviluppo museale del Nordest fino al 2010, per una logica nazionale che somiglia più all’asset promozionale sul nuovo che avanza in stile Zara che a un progetto costruito e progettato su scala nazionale. In tutto questo, responsabile forte è proprio lo Stato, che pure col governo Monti non ha esaltato il dialogo col contemporaneo.
E il domani? Differente il vento che spira nell’ultimo triennio: complice la crisi, molte strutture museali hanno investito sull’arte italiana dei trentenni, conferendo loro malgrado quel tessuto virtuoso alla base di una promozione concreta dell’arte. In questo contesto, una nuova generazione di promesse si affaccia al plateau nazionale, senza remore e con una freschezza nel proporsi completamente nuova, dove il dialogo col museo risulta meno pregiudiziale, più rilassato, aperto a un dialogo fattivo. Forse perché frutto di strutture formative meno ingabbiate in un sistema unico di pensiero, forse meno fuoriclasse, escono autori che avranno una chance in più se supportati con la giusta oculatezza, risultando così non più solo promesse ma referenti concreti pronti al dialogo con la società di domani.
Il mio augurio è che si cominci un dialogo costruttivo, combinato e basato sullo scambio di idee, sogni, desideri e quant’altro, tra i liberi professionisti curatori e con altri artisti, purché il soggetto sia il lavoro, la ricerca, l’aspettativa volta al cambiamento, piuttosto che – come buona scuola Anni Novanta insegna – guardare quali e quante mostre ha fatto il proprio semi-coetaneo con cui si è esposto, spesso appunto a Milano, o quanti anni abbia il nuovo artista che ha una personale nelle gallerie “giuste”.
La questione è antica ma mai démodé: il lavoro dell’artista c’è o è solo combine? Dov’è che si manifesta l’urgenza del fare artistico? Vorrei infatti evidenziare come spesso siano stati gli artisti a essere diventati dei finti manager che fanno studi di settore strategici prima di decidere come orientare la propria ricerca. Purtroppo, come certi sedicenti “maestri” hanno insegnato, si doveva per forza fare “tutto giusto”, senza sperimentare, pur di stare a galla, divenendo invece i primi responsabili di un servilismo neanche sottaciuto.
I nomi per un cambiamento antropologico per fortuna sono tanti e l’elenco su cui scommettere è cospicuo. Qualche nome? Paola Angelini, Tomaso De Luca, Gabriele De Santis, Graziano Folata, Francesco Fonassi, Giulio Frigo, Riccardo Giacconi, Giorgio Guidi, Andrea Kvas, Nicola Martini, Nicola Ruben Montini, Lorenzo Morri, Valerio Nicolai, Dario Pecoraro, Agne Raceviciute, Manuel Larrasabal Scano, Giulio Squillacciotti, Marco Strappato, Stefano Teodori…
Andrea Bruciati
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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